A Articolo programmatico (II): un’ispirazione di pensiero e di vita e la sua genesi (02.02.2008)

Riferimenti bibliografici:

S. Laffi, lettera personale, copia di articolo
M. De Corte, “Fenomenologia dell’autodistruttore”, “Incarnazione dell’uomo”, “L’intelligenza in pericolo di morte”
V. Solov’ëv, “La Russia e la Chiesa universale”, relativa recensione di A. Del Noce
J. Ruskin, “Works”
F.W. Förster, “Cristianesimo e lotta di classe”, “Christus e la vita umana” e altre opere
G. Falco, “La Santa Romana Repubblica”
P.W. von Keppler, “Aus Kunst und Leben”
A. Feuillet, “Ancien Testament”
A. Mottola Molfino, “L’etica dei musei”

Le intuizioni che vorrebbero costituire l’oggetto delle presenti riflessioni, pur avendo origine apparentemente disparata – come risulta dalla bibliografia sopra riportata -, si presentano allo spirito dell’autore come un pensiero unitario, maturato poco per volta nel corso di lunghi anni e ora giunto, per vie umanamente parlando molto irregolari, a un livello di sviluppo non certo definitivo, ma tale da permettere una, se pur provvisoria, espressione sintetica. Ciò che cercherò di fare.
Alcune forti influenze di educatori fuori dell’ordinario e di testi letti con entusiasmo già da giovanetto mi avevano predisposto a quelle intuizioni che poi dovevano così fortemente svilupparsi: tra l’altro l’appassionato studio di Rousseau e l’altrettanto appassionata lettura di “Anna Karenina” di Tolstoi. Quando a diciott’anni, dopo un periodo di dolorosa incubazione, la ricerca spirituale doveva finalmente trovare la sua strada attraverso la lettura di una critica radicale e geniale, anche se estremista, di tutta la società moderna, un pensiero di fondo doveva imporsi: la vita delle moderne metropoli era segnata da un pensiero senza vita – anche a causa dell’ipersviluppo della tecnica – e quella delle campagne da una vita senza pensiero. Tuttavia tra le due la vita delle campagne era la più sana e conservava, assai più che le moderne metropoli, l’impronta di una cultura passata in cui lo spirito era vicino alla vita e non separato da essa. Da qui la scelta, nello stesso tempo religiosa e civile, di una vita di campagna vissuta stabilmente presso i resti di una civiltà in pericolo di scomparire.
In questo stesso periodo – 1968/69 – avveniva l’incontro determinante con l’opera del filosofo cattolico tradizionalista estremista Marcel De Corte. L’ispirazione tomista e specialmente aristotelica di questo autore lo portava a considerazioni, insolite presso gli altri tomisti, sulla società moderna. Egli notava che, secondo Aristotele, la vita sensibile è il fondamento della vita intellettuale, perché le idee nascono dal processo di astrazione operato dall’intelletto sui dati dell’esperienza dei sensi. Analogamente nella dottrina morale Aristotele si distacca dalla tradizione socratico-platonica, secondo la quale conoscere il bene è condizione necessaria e sufficiente per praticarlo: anche qui c’è di mezzo la vita dei sensi, che influisce sulla volontà, la quale deve essere educata attraverso l’esercizio pratico all’acquisizione delle virtù. Ora lo stravolgimento degli ambienti ordinari di vita e del lavoro dell’uomo operato dalla moderna tecnologia e la cultura astratta e disincarnata della nostra società non stravolgono la vita intellettuale e l’operosità dell’uomo moderno? Secondo De Corte la cultura moderna ha infranto quel “rapporto sponsale” tra l’intelletto e l’operosità dell’uomo da una parte e la natura dall’altra che caratterizzava la cultura tradizionale. Nello stesso tempo l’uomo ha sostituito l’educazione morale attraverso l’esperienza viva e lo sforzo individuale con un idealismo astratto, con il quale ci si illude di creare una “fraternità mondiale” sulla base di concetti disincarnati. Tutte queste storture hanno finito per inquinare la stessa vita spirituale dell’uomo moderno, anche nell’ambito ecclesiastico e magisteriale. Da qui le posizioni estremiste, anticonciliari e filo-lefebvriane di De Corte.
In questa situazione tutto l’impegno degli anni successivi, sotto la guida dei miei superiori religiosi e dei miei docenti di storia, filosofia e teologia, è stato rivolto ad attenuare le posizioni troppo estremiste e insubordinate di De Corte e a cercare altre strade per chiarire meglio i problemi. Ciò è stato molto utile per conoscere meglio il pensiero di S. Tommaso e altre prospettive spirituali e per sgomberare il terreno da visioni storiche troppo partigiane. Assolutamente determinante è stata la scoperta dell’opera, oggi completamente dimenticata, del pedagogista F.W. Förster, sul cui pensiero dovrò tornare in seguito.
Oltre allo studio, per molti anni ho avuto la felice opportunità di collaborare, attraverso un intenso scambio di idee e varie realizzazioni pratiche nel campo educativo, con l’associazione culturale laica “La Farfara”, diretta dalla pedagogista Tiziana Vergine, con la quale si è subito creata una forte sintonia. Ma è successo che, con il passare degli anni, si è operato un distacco eccessivo dalle intuizioni di De Corte. Chi me le ha richiamate con grande efficacia – e anche con rammarico di averle trascurate – è stato l’amico ricercatore sociale Stefano Laffi, il quale, alle mie osservazioni sull’attuale degrado spirituale, rispondeva che anche il mondo materiale era degradato a causa dello stravolgimento tecnologico e osservava che l’uomo e il bambino di oggi vivono in mezzo a una selva di congegni elettronici dall’origine misteriosa e dalla costituzione assolutamente impenetrabile, oltre ad aver perduto, grazie all’omologazione informatica, il contatto vivo, personale e originale con la realtà. Il contraccolpo di queste osservazioni – eravamo ormai nel nuovo millennio – doveva essere fortissimo: tutto un mondo di pensieri ritornava alla luce e si aprivano prospettive nuove. Pur ammettendo che lo stile acido di De Corte e molte sue affermazioni storiche e critiche non vanno approvate, rimane il fatto che i suoi concetti basilari sono perfettamente fondati e anche geniali, e sono inoltre la conseguenza rigorosa dell’applicazione alla situazione attuale dei principi della filosofia aristotelico-tomista. Ma quest’ultimo punto sembra essere generalmente sfuggito agli altri tomisti, e bisogna aggiungere che – a parte le palesi esagerazioni di De Corte – non c’è dubbio che anche il magistero ecclesiastico non ha tenuto abbastanza conto delle circostanze obiettive da lui segnalate – per non parlare del disprezzo per la filosofia tomista e in genere per la tradizione cattolica presente in tanta parte della moderna teologia.
Da De Corte dunque possiamo desumere i seguenti principi: l’intelletto umano – essendo un intelletto incarnato – si arricchisce attraverso i concetti astratti dall’esperienza sensibile. Perciò, affinché la vita intellettuale sia sana, essa deve svilupparsi attraverso un contatto continuamente rinnovato con la realtà naturale. A sua volta la vita intellettuale sana – che rispecchia il senso intelligibile contenuto nella creazione sensibile – rifluisce con l’operosità umana sulla natura perfezionandola e umanizzandola, nel rispetto delle sue strutture, delle sue leggi, della sua verità, della sua armonia, della sua bellezza. Quando invece – come avviene nella società moderna – l’intelletto rifiuta il suo stato di incarnazione e si crea una vita concettuale artificiosa e convenzionale, “disincarnata” e “astratta” – non nel senso dell’astrazione aristotelica, ma nel senso deteriore della parola -, non più umilmente aperta all’essenza delle res create e alla luce infinita del Creatore, la vita intellettuale dell’uomo, sedotta dall’illusione di un’assoluta autonomia e dalle immense possibilità della moderna tecnica, degenera in razionalismo esasperato, in delirio di onnipotenza (già condannato come arrogante hybris dalla saggezza antica), in incubo, e questo sconvolto mondo interiore dell’uomo si riversa poi, per mezzo di un’operosità da esso determinata, sulla natura esterna – e sull’uomo stesso – con effetti devastanti. A sua volta il mondo ricreato artificialmente da una tecnica irrispettosa della realtà naturale rifluisce sulla formazione mentale e cerebrale dell’uomo, del giovane, del bambino attraverso un’esperienza sensibile sconvolta e sconvolgente.
Anche per quanto riguarda la morale la lezione di De Corte è tanto rigorosa quanto allarmante. La vita morale certamente si fonda sulla verità – “ciò che è vero rispetto all’intelletto è buono rispetto alla volontà” dice Aristotele – ma la verità morale – la verità sull’uomo – non si consegue, nella vita pratica, con un atto mentale, bensì attraverso la virtù’, che è un habitus da acquisire con l’esercizio, cioè con l’azione costante dello spirito sul corpo, con l’impegno della volontà a far prevalere il bonum rationale sulle passioni sensibili. Infatti Aristotele afferma che la norma della vita morale non è tanto una dottrina, quanto l’esempio dell’uomo virtuoso e che i giovani devono essere condotti alla virtù non dai ragionamenti, ma dai costumi e dalle leggi. Il ragionamento verrà dopo. Ora la società moderna asseconda negli uomini – e nei giovani – una vita dominata dalle passioni sensibili, non proponendo alcun modello di “uomo virtuoso”, anzi negandolo – e su ciò agiscono fortemente interessi e speculazioni economiche incontrollate – mentre i costumi e le leggi vanno sempre più perdendo la loro forza educativa, e poi pretende di surrogare l’esercizio pratico della virtù con l’istruzione intellettuale e con concetti astratti quali “umanità”, “fraternità universale”, “democrazia” e simili. Purtroppo questo linguaggio illusorio a volte appare anche in alcuni documenti ecclesiastici – e in ciò possiamo vedere il motivo, anche se non la totale giustificazione, di alcuni atteggiamenti di De Corte.
Un altro autore che ho frequentato per lunghi anni con grande passione – “l’amore e il lungo studio che mi fecer cercar lo tuo volume” – è il pedagogista tedesco Friedrich Wilhelm Förster, le cui opere più significative furono pubblicate nei primi lustri del Novecento. Pur senza alcun contatto diretto o indiretto e con una prospettiva spirituale totalmente diversa, il pensiero del Förster ricorda in qualche modo quello di De Corte e in una certa misura lo integra. Bisogna anche aggiungere che il Förster è un uomo di grande levatura spirituale, del tutto alieno dalle asprezze e dagli estremismi di De Corte. Anche i suoi giudizi storici sono più equilibrati ed equanimi. Ma il quadro che egli fa dei tempi moderni non è meno drammatico. Egli non è un metafisico o un filosofo della conoscenza, ma piuttosto un moralista e un profondo psicologo. Sebbene faccia assai piu’ spesso riferimento a Platone, mostra di stimare anche Aristotele, di cui richiama la seguente osservazione: “L’educazione morale è della massima importanza, perché l’uomo, quando riceva un’educazione puramente intellettuale, degenera nel più selvaggio e sfrenato di tutti gli esseri viventi.”
Da ciò si può comprendere tutta la sua impostazione. Egli accusa la cultura e la scuola moderna di essere intellettualistica e tecnica, cioè di voler risolvere i problemi della società e dell’educazione soltanto con la diffusione dell’istruzione intellettuale astratta e con lo sviluppo tecnico e lo sfruttamento delle forze della natura per aumentare le comodità umane. Tutta la vita moderna non è che uno sforzo immane di dominio esteriore della natura, mentre si trascura sempre di più la formazione interiore dell’uomo. Questa formazione non consiste assolutamente nella sola istruzione intellettuale, ma principalmente nella formazione del carattere, cioè nell’affermazione della volontà del bene e nella sottomissione ai fini superiori dell’uomo degli istinti di sensualità, di egoismo e di sopraffazione che giacciono indomiti nel suo cuore. Sarà soltanto il raccoglimento interiore per la salvezza soprannaturale dell’anima, e quindi la saggezza della tradizione religiosa, a indicare la via per la conquista della libertà spirituale e per l’affermazione del vero io dell’uomo contro i ciechi istinti della natura.
Se questa è la strada della vera cultura, cosa vi è di più contrario ad essa della moderna civiltà? Essa rifiuta la tradizione religiosa e pretende di sostituire ad essa l’erudizione astratta delle scuole superiori e delle università. Ma tutta l’erudizione e la scienza moderna non servono a nulla per ciò che più conta, cioè per la conoscenza di se stessi e per il risveglio di una vita spirituale superiore. E tutto lo sviluppo tecnico moderno, messo al servizio delle comodità materiali, non fa che creare sempre nuove esigenze, acuire sempre più il desiderio di godere, spalancare nuovi mondi di divertimento e di eccitazione: così l’illusione di sottomettere la natura materiale e le sue energie alle proprie finalità si trasforma nel suo contrario: è l’uomo che si sottomette sempre più alla natura materiale che è in lui, ai propri desideri sensibili, alla propria eccitazione nervosa e a ciò che ne deriva, mentre perde ogni vera libertà dello spirito e della volontà per le sue reali finalità superiori. Ecco dunque lo stravolgimento di tutto: formazione interiore sempre più debole e eccitazioni esteriori sempre più forti.
E la scuola? La scuola moderna è lo specchio della società: essa crea degli eruditi, non degli uomini e perciò non prepara realmente alla vita.
Vi sono, nel Förster, pagine di grande bellezza e di valore intramontabile – anche se per il momento sono sepolte dall’oblio – in cui egli dimostra come la vera cultura deve essere fondata non sull’erudizione astratta né sul dominio tecnico, ma sul dominio spirituale della natura che è in noi e intorno a noi, e per questa via dimostra la sublime superiorità del cristianesimo. Ne riportiamo alcuni brani.
“Il cristianesimo ha dato” al sevizio personale e al lavoro manuale “il carattere più sacro, non perché gli importasse meno la vita spirituale, ma perché conosceva più a fondo la vera igiene della nostra natura spirituale e sapeva quindi che l’elemento spirituale è messo alla prova e sprigionato in noi nel miglior modo non dall’avversione per la materia, ma dal metodico assoggettamento di essa… Chi osserva da questo punto di vista le diverse specie di lavoro e la loro azione sull’uomo interiore, dovrà ammettere che lo studio scientifico, per quanto indispensabile, è tuttavia assai più un pericolo che un aiuto per la vera cultura, per la vera spiritualizzazione dell’uomo. Perché qui l’energia spirituale viene distolta dalla vita personale e occupata in cose che per l’auto-educazione non hanno alcuna importanza. Lo spirito non è indirizzato al vigile controllo del corpo e delle azioni, non combatte con le influenze avverse della vita e degli uomini; anzi non s’occupa affatto di queste cose e resta assorto nella sfera spirituale… La vera cultura si acquista solo quando lo spirito esplica la sua energia creatrice nella vita personale, non quando si libra e lavora al disopra della vita; la vera cultura non viene dall’assenza di spirito, ma solo dall’onnipresente signoria dello spirito sulla materia, e dalla vitale compenetrazione di ogni nostra parola ed azione con le energie dell’anima. Ma tale assoggettamento della materia a finalità superiori è cosa che richiede penoso esercizio e lunga abitudine; e appunto il cosiddetto lavoro domestico offre a ciò la migliore occasione. Nella sua più intima essenza esso è trasfusione d’anima nella materia, è signoria dello spirito sulla vita… Questa vigilanza dello spirito non è anche l’essenza del tatto femminile, di questa delicata connessione di ogni atto e parola, anzi di ogni gesto od espressione del viso col più intimo dell’anima? E non viene tale ‘presenza dell’anima’ appunto esercitata per mezzo del lavoro manuale, che di continuo vieta allo spirito d’isolarsi, e lo costringe ad esser presente fin sulle punte delle dita? Chi si renda conto di questo, ammetterà che il lavoro manuale, precisamente perché è diretto a vincere la resistenza visibile della materia, è un’ottima scuola della tenacia di volontà, della pazienza, della coscienziosità e dell’esattezza… Ogni lavoro manuale che sia eseguito in tal modo, cioè con un profondo interesse spirituale, non è già più un semplice lavoro manuale, ma un lavoro spirituale, e fortifica nell’uomo la spiritualità e il carattere. Il lavoro manuale coscienzioso è una vittoria immediata sulle potenze materiali della pigrizia e della carnalità, è un trionfo dell’energia e libertà spirituale, e contribuisce quindi in modo immediato al predominio dello spirito, anche in tutti gli altri campi. Molto spesso gli uomini si rivelano assai meno resistenti delle donne ai dolori grandi e piccoli; e anche questo perché lo spirito e la volontà degli uomini son meno indirizzati all’immediato controllo e domino sulla propria vita, o meglio ne sono addirittura distolti. Cultura però è applicazione dello spirito alla materia personale, cultura vuol dire ‘incarnazione dello spirito’… La personalità vien solo destata dall’amare, sviluppata dal servire, fortificata dal vincere se stessa… ‘Il figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire egli stesso’. Queste parole, che Gesù Cristo disse allorché lavò i piedi agli apostoli, hanno un profondo senso per tutto il problema di cui ci occupiamo: l’Altissimo viene all’uomo in sembianza di servo, per dimostrargli che solo in sembianza di servo si può giungere all’Altissimo.”
Queste pagine del Förster mi hanno fatto capire perché la Chiesa alla fine ha preferito Aristotele a Platone: perché in Aristotele c’è come un presentimento dell’incarnazione. E da qui deriva anche la sublimità della religione cristiana, la quale non afferma soltanto lo Spirito – come le altre religioni – ma lo Spirito fatto carne. E nella profonda visione del Förster l’incarnazione dello Spirito non significa, come per molti filosofi e teologi moderni, la mondanizzazione dello Spirito, ma al contrario la spiritualizzazione della carne, la vivificazione di ogni attività umana attraverso la mortificazione della pura natura e la rinascita ad una vita nuova.
L’uomo moderno si è alienato da queste realtà perché non conosce più se stesso: l’erudizione astratta lo ha allontanato dalla riflessione sulle esperienze più intime della sua propria vita e il moderno comfort a cui si è abbandonato senza ritegno – con la complicità dell’interesse commerciale – gli ha fatto perdere il senso e il valore del dominio dello spirito sulla propria natura corporea. Ciò significa che l’uomo moderno, con tutto il suo empirismo, non ha il senso della realtà, e questo spiega tutto il suo utopismo idealistico, per cui egli crede di risolvere i problemi sociali e politici con interventi puramente esteriori e con ideali morali astratti e disincarnati – si noti come su questo punto il pensiero del Förster coincida con quello di De Corte.
Vorremmo osservare che il Förster scriveva cent’anni fa. Non è forse vero che i mali da lui denunciati si sono enormemente moltiplicati?
Vi è un altro pensatore a cui ci conduce quanto abbiamo detto fin qui: si tratta del russo Vladimir Solov’ëv, discepolo di Dostojevski convertitosi al cattolicesimo. Il Förster stesso lo cita come geniale interprete della dottrina dell’incarnazione, di cui abbiamo sottolineato l’importanza.
Secondo Solov’ëv il fine stesso della creazione era l’incarnazione, cioè l’unione del genere umano e del mondo con Dio. Questo fine è stato preparato da tutta la storia del mondo e in particolare dalla storia ebraica. Anche se il popolo eletto alla fine non ha voluto accettare il mistero dell’incarnazione, di fatto tutto l’Antico Testamento costituisce una preparazione ad esso – questa intuizione di Solov’ëv è confermata da un esegeta esperto e profondo come il Feuillet. Ma l’incarnazione non è tutta e soltanto racchiusa nel mistero dell’Uomo-Dio Gesu’ Cristo: essa è destinata a prolungarsi attraverso la vita della Chiesa e ad investire tutte le realtà umane, compresa la vita sociale e politica delle nazioni. Ciò che mi sembra ora più interessante è quanto nota Solov’ëv a proposito delle eresie dei primi secoli. Egli osserva che tutte la prime eresie furono un tentativo di negare l’incarnazione da parte dello spirito religioso orientale – e in questo l’opinione di Solov’ëv concorda con quella del grande storico del medioevo Giorgio Falco: il Docetismo, che negava la realtà umana e corporea di Cristo, apparve molto presto. Già se ne fa cenno negli scritti giovannei. E sono impressionanti e degne di profonda meditazione le seguenti parole della seconda lettera di S. Giovanni: “Molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo!” l’Arianesimo negava la divinità dell’uomo Cristo, il Nestorianesimo negava l’unità dell’uomo Cristo con il Figlio eterno di Dio – e quindi la definizione della Madonna come Madre di Dio -, il Monofisismo negava la presenza attuale delle due nature – umana e divina – in Cristo, il Monoteletismo negava la distinzione della volontà umana di Cristo dalla volontà divina, infine – e su ciò vorrei attirare ora l’attenzione – vi fu l’eresia iconoclasta, cioè la negazione della legittimità delle immagini sacre e la loro distruzione. Ebbene anch’essa è una negazione del mistero dell’incarnazione e anche in questo caso l’ortodossia è stata difesa strenuamente da Roma contro Bisanzio ed ha avuto i suoi martiri. Ciò non è importante soltanto per mostrare i meriti della Chiesa di Roma e dei martiri dell’ortodossia verso l’arte, ma anche perché ci fa capire l’importanza incalcolabile dell’arte come prolungamento del mistero dell’incarnazione.
Giorgio Falco riporta le eloquenti parole del papa Gregorio II, difensore dell’ortodossia contro l’imperatore iconoclasta: “Se le profezie non si sono compiute, non si scrivano i fatti a dimostrazione di ciò che ancora non è avvenuto. Se, cioè, il Signore non si è incarnato, non si formi la Sua santa immagine secondo la carne. Se non nacque in Betlemme dalla gloriosa Vergine, madre di Dio, s’Egli che regge l’universo, non fu portato come un infante tra le braccia della madre, s’Egli, che alimenta ogni carne, non degnò di cibarsi di latte, non si raffiguri neppure questo. Se non risuscitò i morti, né sciolse le membra ai paralitici, né purificò i lebbrosi, né diede la vista ai ciechi e ai muti la parola, non si rappresentino i Suoi miracoli. Se non subì volontariamente la passione, se non spogliò l’inferno, se, risorto, non salì al cielo, Egli che dovrà venire a giudicare i vivi ed i morti, in tal caso non s’adoperino lettere o colori a narrare o a raffigurare questi fatti. Ma se tutto ciò è avvenuto, ed è grande il mistero di pietà, così fosse possibile che il cielo e la terra e il mare e gli animali e le piante, e ogni altra cosa lo narrassero con la voce, per iscritto, con la pittura.”
Scriveva il vescovo cattolico Paul Wilhelm von Keppler, ammiratore del grande scrittore e critico d’arte inglese John Ruskin – un’altra delle mie passioni giovanili -, all’inizio del Novecento: “Il tentativo di rappresentare il divino in veste terrena, in fattezze umane, nell’epoca prima di Cristo dovette necessariamente fallire; secondo Fuhrich anche le più geniali realizzazioni dell’antichità appaiono come anticipazioni insufficienti dell’incarnazione, mentre ciò che si può dire delle più nobili e più pure opere religiose è che esse sembrano presagi di quel grande mistero futuro… Il Natale rappresenta anche la notte di nascita dell’immagine religiosa cristiana… La motivazione intima e la necessità dell’immagine cristiana è assolutamente radicata nel mistero dell’incarnazione… Appare evidente che soltanto da quel momento l’immagine religiosa prese forma e che l’arte proprio sul terreno del cristianesimo acquisì autorevolezza e spazio… Così la religione cristiana offrì all’arte rappresentativa un vasto e ampio campo con alti e magnifici obiettivi. Prima venne interpellata l’arte figurativa, allo scopo di tessere nella veste terrena della Chiesa quei fili cromatici e dorati della bellezza, creando la veste degna della sposa di Dio. E’ proprio quel desiderio profondo che anima la Chiesa come portatrice di verità e di grazia a fare un patto con la bellezza e la grazia. ‘Vieni’ esclama la Chiesa all’arte figurativa, ‘vieni e adorna la mia casa costruita dall’architettura, conferisci alla pietra il caldo ardore del colore, ispira vita a quelle mura morte, falle parlare, fa fiorire i fiori sui campi di pietra là su nel soffitto a volta, affinché la mia casa sia degna abitazione per lo Sposo divino; ma offri anche tutta la tua competenza per adornare l’altare e la sua area, affinché sia appagata la voce del mio cuore, sia compiuto il mio dovere e sia offerto un degno alloggio all’eucaristia. Ma non limitare le tue opere alla chiesa, non essere avara con i tuoi doni, distribuiscili a tutti i miei figli, va’ nelle capanne dei poveri, nelle case dei credenti e conduci i tuoi raggi luminosi nella desolazione, nella tetraggine dell’esistenza ordinaria, consola le anime tristi, rallegra i cuori, fa che si elevino gli spiriti’.”
E questo ruolo dell’arte si inserisce nella visione aristotelica di De Corte del lavoro umano come perfezionatore della natura e nella visione del Förster del lavoro manuale come incarnazione dello spirito.
La concatenazione di questi pensieri mi si è imposta alla lettura delle pagine 115-119 del bel libro di Alessandra Mottola Molfino “L’etica dei musei”. In queste pagine sublimi vi è l’intuizione che l’Italia ha una grande missione.
“A Berlino” scrive la Mottola Molfino “si spendono montagne di soldi per ricostruire un quartiere falso-medievale che immancabilmente già somiglia a Disneyland, da noi le città medievali esistono ancora a centinaia. E se saremo durissimi, severissimi, incorruttibili nel conservarle… allora, fra pochi anni, le nostre città e cittadine antiche saranno le uniche vere e reali rimaste.”
L’Italia conserva il più grande patrimonio artistico del mondo, un patrimonio realizzato quando il lavoro umano era veramente incarnazione dello spirito, e non devastazione della natura. Si tratta di preservarlo, ma non solo: “Diamoci un compito piu’ grande” scrive la Mottola Molfino: “essere il luogo della mediazione tra passato e futuro, un ruolo che le stesse grandiose nostre rovine ci impongono. Il nostro compito nell’Unione Europea potrebbe dunque essere quello di raccontare il passato alle nuove generazioni, di conservarlo, di resistere sull’orlo dell’irrealtà tecnologica con la forza della storia, di aiutare tutti gli europei a conservare (e tramandare) i concetti di tempo, di storia, di realtà fisica, di patrimonio culturale, di bellezza.”
Queste nobili parole – ed altre che per brevità non riportiamo – non assumono un senso ancora piu’ sublime nella luce del pensiero di De Corte, di Förster, di Solov’ëv, di Keppler, di Ruskin e del mistero dell’incarnazione?
Scriveva De Corte nel 1963: “Fino a un’epoca relativamente recente, l’uomo aveva accettato la missione che a lui aveva affidato il Dio del Genesi: coltivare la natura e portare a compimento la creazione. Il lavoro dell’uomo non distruggeva l’ambiente circostante, ma lo nobilitava, elevandolo a un livello umano. I quadri di vita che il passato ci ha trasmesso, e dovrebbero essere protetti, al giorno d’oggi, come certe specie animali in via di estinzione, ne fanno un’eloquente testimonianza. In tutti i loro aspetti, scopriamo una connivenza segreta e profonda tra l’uomo e il suo ambiente. La natura ci appare come un corpo più esteso dell’uomo, come un prolungamento fisico della sua anima. Le tracce della comunione sono ancora visibili nei rottami, ricchi o umili, d’un immenso naufragio, avidamente ricercati dalla nostra povertà, e cantati dal poeta: ‘I mobili splendidi/ lucidati dagli anni…’.” Non c’è una evidente coincidenza di pensiero con la Mottola Molfino? Scrive quest’ultima: “L’unione intima e drammatica che l’arte antica esprime tra natura e cultura, tra morte e vita, non si trova oggi più nella tecnologia.” E, benché ella non si presenti come esperta di filosofia o come aristotelica, le seguenti affermazioni si coniugano splendidamente con l’aristotelismo di De Corte e con la sua avversione al pensiero disincarnato: “Conservare fisicamente i nostri beni culturali servirà anche a noi come individui pensanti e può anche significare restituire dignità alle stesse nostre presenze fisiche, ai nostri stessi corpi umani (oggi sempre più negati e torturati) poiché non siamo solo mente, o solo circuiti elettromagnetici…”
E non possiamo dimenticare che la maggior parte dell’arte italiana, almeno fino al ’600, è arte cristiana. Non dovremmo sentirci chiamati alla grande missione di riportare l’uomo ad una rinnovata armonia tra spirito e corpo, armonia illuminata dal mistero dell’incarnazione così come è stato sentito, vissuto e interpretato da una tradizione umanistica, spirituale e artistica che ora rischia di essere dimenticata?
Purtroppo dell’orribile architettura e arte religiosa moderna è meglio tacere che parlare. E’ sempre l’influsso di una cultura astratta e disincarnata che penetra anche nella Chiesa. Ciò non deve scandalizzarci. Anche in passato la Chiesa ha subito l’influenza della cultura dominante. Pensiamo alla schiavitù. Di fronte a un fatto così grave uomini come S. Pietro Claver o Las Casas non si sono scandalizzati, ma si sono impegnati a rimediare alla tragica situazione con la forza dell’amore evangelico.
Ma l’invito della laica Mottola Molfino all’Italia: “accettiamo questo nostro ruolo europeo di patria del passato”, letto nella luce della fede nella Provvidenza, della teologia e della filosofia cristiana, non apre una prospettiva meravigliosa – che non soltanto le nostre grandiose rovine, ma un disegno più alto ci impone – di comunione spirituale con chi ci ha preceduto e con chi ci seguirà, per convertire “il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri” e così offrire alla Chiesa e alla civiltà i fondamenti per una rinnovata cultura?

D. Massimo Lapponi