Per una lettura “non laica” della regola benedettina

di Don Massimo Lapponi

Recentemente Don Giulio Meiattini ha scritto un articolo provocatorio [Giulio Meiattini OSB, “Letture laiche della regola” in “Vita Nostra” 16 (1/2019) 39-51], nel quale osserva che la Regola di San Benedetto è stata recentemente molto rivalutata in ambiti diversi. Egli enumera l’applicazione degli insegnamenti di San Benedetto alla vita aziendale, all’economia, alla vita familiare, alla vita sacerdotale e, con la cosiddetta “opzione Benedetto”, alla stessa lotta per la preservazione della fede e della civiltà. Ma paradossalmente, osserva Meiattini, l’ambito in cui la ricchezza della Regola non è stata rimessa in luce e in valore è l’ambito propriamente monastico. A suo giuduzio, infatti, i monaci, almeno in Italia, hanno mostrato una grande indifferenza per queste rivalutazioni e la loro vita sembra procedere in una sorta di musealizzazione del loro patrimonio storico senza un vero rinnovamento. Da ciò la prospettiva, tutt’altro che irrealistica, di una prossima estinzione della maggior parte delle comunità, prospettiva non contraddetta dalla fioritura isolata di alcune privilegiate comunità femminili.
Non si può dar torto a Meiattini, se si considera il fatto che opere come “L’opzione Benedetto” e “San Benedetto e la vita familiare”, che pure hanno avuto una vasta eco a livello internazionale, non hanno riscosso pressoché alcuna attenzione nel mondo monastico. Si dirà che quelle opere sono state scritte per i laici e non per i monaci. Ma in realtà il messaggio che esse trasmettevano non poteva raggiungere i laici senza necessariamente coinvolgere in prima persona i monaci. Un esempio eloquente: una benedettina filippina ha detto che il volume “San Benedetto e la vita familiare”, letto da lei nell’edizione inglese, le ha fatto capire veramente la Regola di San Benedetto.
Cosa manca, dunque, nel mondo benedettino perché questa nuova rivalutazione della Regola possa coinvolgerlo? Forse per capirlo dobbiamo fare un passo indietro.
Già il beato Card. Schuster al suo tempo aveva avvertito la crisi che stava attraversando il mondo monastico e aveva cercato di superarla. Dai suoi scritti si capisce che già al suo tempo i benedettini si trovavano ad affrontare una critica sempre più corrosiva, non solo da parte della cultura laica secolarizzata, ma anche da parte di settori sempre più ampi del mondo cattolico. La sostanza della critica era la pretesa inutilità ecclesiale e sociale della vita monastica, in quanto essa prevede che la vita dei monaci si svolga sostanzialmente entro la clausura del monastero. Possiamo ricordare che un santo come Don Calabria, un giorno in cui gli si parlò dei Camaldolesi, avrebbe esclamato: «Contemplativi? Acqua stagnante!» Questo episodio è emblematico, sia perché mostra chiaramente quale fosse la critica già allora serpeggiante tra gli stessi cattolici più degni di stima, sia quale fosse la rivendicazione più comune da parte del mondo monastico: l’appello al valore della vita contemplativa.
Anche lo Schuster non manca di rilevare il valore fondamentale della vita di preghiera e di intercessione, proprio della vita monastica, per difenderla dalle accuse già allora diffuse, e in alcuni testi sembra limitarsi a questa sola argomentazione. Ma vi sono altri suoi testi che aprono prospettive nuove. Egli, infatti, capiva che oggi è necessario mettere in luce e sviluppare una funzione anche visibilmente sociale e apostolica del monachesimo, pur senza snaturarne il carattere proprio, e si sforzò di realizzare questo difficile compito in molti suoi scritti. Merita di essere citata almeno la sua omelia tenuta a Montecassino il 21 marzo 1942, festa di San Benedetto [cf: https://www.ilcattolico.it/rassegna-stampa-cattolica/formazione-e-catechesi/cristo-e-san-benedetto-che-moltiplicano-il-pane-eucaristico.html ]. In questo testo appaiono originali intuizioni sull’insostituibile missione apostolica e sociale del monachesimo, anche se lo Schuster non riesce a svilupparle compiutamente a causa degli insuperabili condizionamenti del suo tempo. Ma ciò che è grave è che queste sue aperture verso il riconoscimento di una dimensione non esclusivamente contemplativa della vita claustrale non hanno avuto, nei successivi decenni, né l’attenzione, né gli sviluppi che avrebbero meritato.
Una prova di ciò l’abbiamo nelle controversie che sono sorte poco tempo fa in occasione di alcuni documenti magisteriali sulla vita consacrata. La parte più fortemente critica nei riguardi del recente magistero ha lamentato che in detti documenti veniva fortemente mortificata la vita contemplativa claustrale e il suo ruolo di cuore orante dell Chiesa, per privilegiare unilateralmente la dimensione sociale. Da parte loro i documenti magisteriali sembrano testimoniare un certo disagio ad armonizzare la tradizione della vita monastica con le nuove sempre più pressanti esigenze.
Possiamo chiederci: la causa della controversia non sarà, forse, l’incompletezza di una prospettiva, condivisa da entrambe le parti? Se, infatti, si pone quale carattere proprio della vita monastica e claustrale la “vita contemplativa”, chi vuole andare nella direzione delle nuove esigenze tenderà a modificare le tradizioni monastiche e chi non intende modificarle insisterà sul valore della vita contemplativa in se stessa, nonostante l’assenza di una dimensione visibilmente sociale ed apostolica.
Forse, dunque, la controversia verrebbe meno se si prendesse coscienza che la vita monastica tradizionale, senza che se ne cambino i connotati essenziali, è tutt’altro che priva di una dimensione sociale ed apostolica visibile, di là dalla sua innegabile funzione di “cuore orante della Chiesa”. Proprio questa era la via che si sforzava di percorrere il Beato Schuster e che, se pure con molto ritardo, essendo essa stata sostanzialmente trascurata per tanti decenni, ora siamo chiamati a riprendere e a sviluppare.
Proprio il volume “San Benedetto e la vita familiare”, mentre mostrava il valore, per le famiglie umane, dell’originale animazione della vita comune promossa dalla Regola benedettina, nello stesso tempo riportava alla piena coscienza dei monaci l’incalcolabile e insostituibile valore, non soltanto per se stessi, ma per la l’intera Chiesa e per la società, della loro presenza come comunità plasmata dalla Parola di Dio nelle opere di tutti i giorni. “Ora et labora”: la contemplazione diviene ispirazione per santificare la vita condivisa di una comunità cristiana. In tal modo la vita monastica si pone non solo come “cuore orante della Chiesa”, ma anche come modello di vita quotidiana cristiana condivisa, soprattutto per le famiglie.
Ciò, però, richiede un revisione profonda della vita benedettina. Già i pregiudizi che vigevano al tempo di Schuster impedirono a quest’ultimo di chiarire fino in fondo l’esigenza di rinnovamento sollecitata dai nostri tragici tempi. Infatti la focalizzazione dei monaci sacerdoti sul lavoro intellettuale e il ricadere di tutto il lavoro “materiale” sulle spalle dei fratelli impedivano che risaltasse in piena luce lo sprito della Regola, la quale è del tutto aliena da questa divisione artificiosa dei compiti.
Ma ancora adesso il monachesimo tende ad orientarsi verso il lavoro intellettuale, con la differenza che di esso si vogliono rendere partecipi anche i non sacerdoti. In tal modo passa in secondo piano proprio il cuore stesso della Regola, la quale non si propone di coltivare l’intelletto, o una spiritualità separata dall’impegno comunitario quotidiano, bensì di plasmare la vita di tutti i giorni dei monaci, alla luce della Parola di Dio celebrata nella liturgia, in tutti i suoi aspetti, a cominciare dai più umili lavori domestici. Ovviamente la vita intellettuale non è affatto esclusa, ma essa è chiamata, per prima cosa, a servire l’attività quotidiana dei fratelli che vivono insieme.
Dunque un risveglio e una presa di coscienza del vero spirito della Regola, se da una parte, rivelandola quale guida preziosa per la vita di ogni comunità cristiana, e in primo luogo per la famiglia, ne rende palpabile l’insostituibile valore apostolico, dall’altra costituisce la base per un profondo rinnovamento della vita monastica. Quest’ultima, infatti, lasciate da parte le ambizioni accademiche e le spiritualità troppo disincarnate, dovrà rileggere con occhi nuovi, piena di ammirazione e di sorpresa, il dettato della Regola e, lungi dal limitarsi a vedervi il modello di una vita unicamente contemplativa, vi scoprirà la forza plasmatrice della vita quotidiana di una comunità operosa. Solo dopo aver realizzato una vera conversione dalla spiritualità astratta alla vita condivisa concretamente, ricomposta alla luce della Regola nell’attività quotdiana, la comunità monastica potrà, tramite l’ospitalità, l’esempio e l’insegnamento, essere il modello ispirativo per quelle “letture laiche della Regola” che stanno bussando alle porte dei nostri cenobi.