Le ambiguità della democrazia e le prospettive attuali

(pubblicato su Il legno storto il 30 dicembre 2012)

I

Si attribuisce a Lord Winston Churchill l’affermazione: «È vero che la democrazia ha moltissimi difetti, ma trovatemi un sistema migliore!»
La frase non manca di ambiguità. La parola “democrazia”, infatti, ha almeno due sensi, molto diversi tra loro. In un primo senso essa indica un valore morale, cioè il rispetto per ogni persona e per i suoi diritti – rispetto che naturalmente dovrà poi trovare i necessari strumenti per avere una sua effettiva realizzazione sociale. In un secondo senso la stessa parola indica semplicemente un meccanismo di funzionamento dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Questo secondo senso, come è ovvio, dovrebbe essere subordinato al primo.
Troppo spesso invece avviene che si confondano i due sensi di “democrazia” e si finisca così per considerare come essenza della democrazia ciò che dovrebbe essere soltanto uno strumento per la sua realizzazione e a giudicare, perciò, “antidemocratica” ogni critica rivolta al sistema rappresentativo parlamentare.
Così Popper – il quale a mio umile giudizio è un pensatore abbastanza mediocre, che non merita il gran credito che abitualmente gli si concede – considerava Platone antidemocratico per il fatto che egli poneva i beni supremi al di sopra delle discussioni politiche degli uomini, mettendoli sotto la protezione del “governo dei filosofi”.
Su questo punto bisogna osservare che dell’opera di Platone si possono fare letture diverse. Vi è una lettura più superficiale e immediata, che è del tutto legittima ma che si ferma alla lettera e non sa vedere lo spirito che la anima. Secondo questa lettura fin dall’antichità, a cominciare da Aristotele, Platone è stato giustamente oggetto di critica per la sua utopia del governo dei filosofi e per la leggi irrealistiche da lui proposte.
Ma vi è di Platone una diversa lettura, più profonda, che va oltre la lettera e sa scorgere, di là dall’utopia, l’intramontabile testimonianza del filosofo ateniese a difesa dei beni intangibili dell’anima contro la corruzione che sempre li minaccia a causa delle oscillazioni, spesso vertiginose, dei popoli e dei governi.
Questa difesa dei beni dell’anima, del resto, non è soltanto propria di Platone, ma fa parte di una tradizione spirituale condivisa più o meno da tutta l’antichità – e che non è dunque una dottrina specificamente cattolica – alla quale era soggiacente la distinzione, più tardi formulata in maniera più esplicita, tra diritto naturale e diritto positivo. Di questa antica tradizione si fa portavoce, tra gli altri, l’Antigone di Sofocle – e se la sua testimonianza ha attraversato i secoli e ancora parla al cuore dell’uomo moderno, una ragione ci sarà! A Creonte che le chiede come ella abbia osato violare le leggi da lui stabilite, così l’eroina risponde:
«Non è stato Zeus ad ordinarmele, né Dike che vive con gli dèi dei morti ha sancito leggi di tal genere tra i mortali, né pensavo che i tuoi ordini avessero tanta forza che tu riuscissi, pur mortale, a superare le leggi non scritte eppure sicure degli dei. Infatti esse non vivono da oggi o da ieri, ma da sempre, e nessuno sa da quando apparvero».
Ma prendiamo il caso di Aristotele, generalmente considerato più “realista” dell’ “idealista” Platone. Egli dunque, all’inizio dell’ “Etica Nicomachea” – uno dei testi fondamentali della civiltà occidentale – afferma chiaramente che la politica verte sul “moralmente bello e giusto.” Ed egli parla di politica in un trattato di etica proprio perché la politica persegue il bene dell’uomo in modo più perfetto, in quanto scienza “architettonica” che «stabilisce quali scienze è necessario coltivare nella città, e quali ciascuna classe di cittadini deve apprendere, e fino a che punto (…) E poiché è essa che si serve di tutte le altre scienze e che stabilisce, inoltre, per legge che cosa si deve fare, e da quali azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per l’uomo. Infatti, se anche il bene è il medesimo per il singolo e per la città, è manifestamente qualcosa di più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si può, sì, contentare anche del bene di un solo individuo, ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città. La nostra ricerca mira appunto a questo, dal momento che è una ricerca “politica” ».
Dunque per Aristotele la politica fa parte dell’etica, e anzi ne costituisce l’aspetto più alto. Anche per lui, perciò, come per Platone, l’attività politica deve servire a qualche cosa di più alto, che si sottrae alle discordi opinioni e discussioni degli uomini. L’etica infatti è una scienza, non un’opinione, se pure diversa dalle altre per il suo oggetto e per il suo metodo. E ricordiamo che tanto Platone quanto Aristotele reagiscono alla crisi spirituale della sofistica.
Non dovrebbe, dunque, essere considerato “antidemocratico” osservare che quando il sistema parlamentare supera una certa soglia di prudenza e di saggezza e pone le proprie diatribe e le proprie scelte come una sorta di “bene assoluto”, esso di fatto non serve più realmente all’ideale morale della democrazia.
Su questo possiamo portare la testimonianza di un altro grande uomo dell’antichità: Cicerone. È interessante osservare come egli abbia volutamente imitato, almeno nel titolo, l’opera politica di Platone. Di fatto però il suo “De re publica” prende tutte le dovute distanze dall’utopia platonica e riporta la discussione sulla difesa di una giustizia obiettiva, che si sottrae alle oscillazioni di umore dei popoli, sul terreno dell’esperienza storica concreta. Tanto più la sua testimonianza è eloquente e tale da sormontare il trascorrere dei secoli. Così egli scrive:
« “Vengo ora – disse Scipione – a quella terza forma di governo, in cui forse risulterà che vi sono delle difficoltà. Quando si afferma che si governa per mezzo del popolo e che tutto è in suo potere, quando la moltitudine condanna chiunque voglia e si saccheggia, si ruba, si occupa, si dissipa a proprio piacimento, puoi allora affermare, o Lelio, che non si realizzi il noto concetto di repubblica, visto che tutto appartiene al popolo e visto che certamente conveniamo che repubblica significa cosa del popolo?” Allora Lelio rispose: “Di nessuno stato direi con maggiore facilità che non è una repubblica che di codesto, che è tutto e indiscutibilmente in potere della massa. Infatti se non ritenevamo che vi fosse stata una repubblica in Siracusa, né in Agrigento, né in Atene, quando vi erano i tiranni, né qui, al tempo dei decemviri, non vedo come possa venir fuori maggiormente il nome di repubblica nella tirannia della moltitudine, in primo luogo perché per me, o Scipione, come tu hai già molto giustamente affermato, non è un popolo se non quel gruppo che è definito dal comune rispetto della legge, ed invece codesta aggregazione è un tiranno, nella stessa misura in cui lo sarebbe se fosse un unico individuo, è anzi ancor più crudele di un tiranno, perché non c’è niente di più feroce di codesta belva, che contraffà l’aspetto e il nome di un popolo” ».

II

Se ora ci chiediamo perché queste testimonianze dell’antichità ancora trovino una commossa eco nel nostro cuore di uomini moderni, penso che si possa rispondere con il Förster che nei grandi ingegni del mondo classico la coscienza morale e politica era giunta ad un grado di altissima maturità, mentre nello stesso tempo il loro sguardo poteva abbracciare con più immediata semplicità e senza le complicazioni della moderna erudizione l’essenza della realtà sociale e dei suoi problemi.
Del resto si dimentica troppo facilmente che, anche in tempi assai più vicini a noi, il sistema parlamentare fu giudicato imperfetto dalle personalità più disparate, e anche politicamente più ostili tra loro. Sappiamo, ad esempio, che tanto il marxismo quanto il fascismo condannavano il sistema parlamentare, e probabilmente per ragioni non del tutto diverse. Ora, per quanti si giudichi giustamente aberrante sia l’uno che l’altro sistema, non sarebbe però del tutto ragionevole non valutare le loro ragioni su questo punto, se mai non ci fosse in esse, anche nell’errore, qualche spunto almeno stimolante per la nostra riflessione.
Ma di là dalle critiche di correnti politiche evidentemente estremiste, nell’uno o nell’altro senso, non credo che sia da trascurare il contributo offerto, su questo argomento, da Augustin Cochin, storico della Rivoluzione Francese recentemente molto rivalutato da Franҫois Furet, la cui autorevolezza negli studi sulla Rivoluzione Francese nessuno potrebbe mettere in dubbio.
Notava dunque il Furet che Augustin Cochin ebbe il merito di introdurre negli studi storici il metodo sociologico messo allora in onore, in Francia, da Emile Durkheim. A seguito di quest’ultimo, il Cochin osservava che non è possibile spiegare il comportamento dei protagonisti della Rivoluzione Francese facendo appello alla sola psicologia individuale. Infatti non si spiegherebbe come personalità fondamentalmente mediocri siano giunte a compiere azioni così gravi e gravide di conseguenze. Pur sostenendo la validità della narrazione storica della Rivoluzione fatta da Hyppolite Taine nelle “Origines de la France contemporaine” e difendendo l’autore di essa dalle accuse di “lesa maestà rivoluzionaria” a lui rivolte dall’Aulard, egli tuttavia osservava che il Taine non riusciva a dare delle azioni dei rivoluzionari una convincente motivazione, appunto perché la ricercava soltanto nell’ambito della psicologia individuale.
Ora, seguendo il metodo di Durkheim, il Cochin osservava che persone che collaborano insieme ad un lavoro decisionale, come può essere il caso di un circolo culturale, di una Loggia Massonica, o di un’assemblea legislativa, sono sottoposte a leggi sociologiche di gruppo che le portano verso comportamenti inspiegabili in base alla solo loro personale individualità. Così egli notava, ad esempio, che in un’assemblea politica le persone più serie e preparate sono anche quelle maggiormente impegnate in vari settori di attività economica e sociale, mentre le menti più sofistiche e irresponsabili non hanno, come è ovvio, gravi impegni sociali, o almeno non ne avvertono il doveroso richiamo. Succede così che i primi, dopo lunghe ore di discussione, si ritirano dall’assemblea per attendere ai propri doveri, lasciando in definitiva campo libero agli altri, con il risultato che, appunto in base ad una legge sociologica, l’opinione peggiore è quella che, in alta percentuale, tende a prevalere.
Ma i difetti di questo sistema diventano assai più gravi quando, dimenticando la lezione degli antichi, l’ambito del potere politico tende ad estendersi oltre le proprie legittime competenze. Recentemente abbiamo visto alcuni fare la strabiliante proposta di adottare nelle scuole, come testo di morale, la Costituzione Italiana, quasi che essa dovesse, in una società democratica, prendere il posto dei Dieci Comandamenti.
Indipendentemente dagli eventuali difetti e limiti di quel testo, è ad ogni modo certo che esso non fu pensato da alcuno di quanti vi collaborarono con questa ambiziosa finalità. Certamente a quel tempo nessuno, neanche i più rivoluzionari, pensavano che un testo politico-legislativo potesse sostituire l’autorevolezza dei Dieci Comandamenti. Ora però, a quanto sembra, i tempi sono cambiati e, messa da parte, in campo politico-sociale, la tradizione morale e religiosa, si pretende di sostituirla con i decreti legislativi. Quali siano i risultati di questa tendenza, se ce ne fosse bisogno, risulterebbe evidente dalle leggi sociologiche delle assemblee politiche studiate dal Cochin. È chiaro, infatti, che, finché si tratta di stabilire la tassa sulla benzina, il prevalere dei sofisti in parlamento sarà un danno relativo, ma quando si tratta di stabilire il bene e il male, la morte e la vita, le cose cambiano radicalmente.
La prima cosa che cambia è la stessa autorevolezza delle norme scaturite da un’assemblea così poco autorevole. Questa mancanza di autorevolezza è inconsciamente sentita dagli stessi parlamentari, ed è in fondo ad essa che risale quell’incertezza e quell’incapacità a dare direttive morali severe alla società che tutti avvertiamo. Come potrebbe un’autorità così relativa e cangiante affermare perentoriamente i principi basilari della condotta umana? Finché si tratta di affermazioni generiche, più o meno condivisibili da tutti, come la condanna del furto, dell’omicidio o dell’incesto, sembra che non esistano problemi – anche se di fatto esistono, dato che non si è in grado di mettersi d’accordo neanche su un concetto chiaro ed univoco di “omicidio”, e nessuno disturba chi diffonde in rete invitanti esempi di incesto, purché ci sia la clausola “vietato ai minori”. Ma quando si scende a più definiti e particolari ambiti della condotta umana, oltre alla presenza in parlamento di teste particolarmente riscaldate, vi è in fondo quasi un’inavvertita coscienza che esso non possa arrischiarsi ad entrare in un sacrario che non gli compete. D’altra parte, non essendovi in tale ambito alcun’altra autorità riconosciuta, necessariamente si crea un vuoto spirituale che gli interessi più discutibili possono agevolmente occupare.
Ecco allora che nella società si diffondono e si difendono sfacciatamente i comportamenti più abnormi, e il parlamento si trova nell’incapacità di porvi rimedio. Anzi, spesso si trova portato – per le leggi sociologiche di cui si è detto – ad avallare con la sua autorità legislativa usi e costumi assolutamente riprovevoli, e anche in aperto contrasto con le stesse costituzioni scritte dei popoli civili – ma, per la sua stessa logica interna, esso finisce per sorvolare sulla contraddizione.

III

Potrà sembrare bigotto e pretesco ora richiamare l’esempio dei costumi sessuali, ma non lo è affatto. Infatti i disordini sessuali – naturalmente ce ne sono altri – hanno un’influenza grandissima in tutti gli altri settori della società e soltanto una volontaria miopia impedisce agli uomini, e soprattutto ai parlamentari, di oggi di prenderne coscienza.
Prendiamo dunque l’esempio dei Sexy Shops – legittimati, ovviamente, dalla legislazione moderna. Si trova in questi onorevoli magazzini una sezione detta “sado-maso”, nella quale si possono acquistare svariati strumenti di tortura, ad uso degli amanti del genere. Ora, secondo la legislazione italiana, non è lecito arrecare danno o violenza al fisico di una persona, quand’anche essa fosse consenziente. Come dunque può un parlamento approvare l’esistenza di una commercio così evidentemente in contrasto con la costituzione nazionale? Ma d’altra parte la logica interna dell’assemblea legislativa impedisce che si possa discutere con obiettività di questo fatto in parlamento.
Non parliamo ora della valanga di adescamenti all’adulterio che sfacciatamente affollano la rete – come se l’adulterio non fosse un reato, almeno fino a non molto tempo fa: poi forse l’autorevole parlamento, sempre per la sua logica interna, l’ha depennato.
Ma veniamo ad un fenomeno assai più inquietante.
Sono stato recentemente informato da persone degne di fede che esistono filmati, se non italiani almeno stranieri, in particolare tedeschi e svedesi, in cui donne e uomini vengono realmente, e non per finta, sottoposti alle più crudeli torture per motivi di sadismo sessuale. Una di queste torture è una feroce fustigazione, che naturalmente lascia sui corpi tracce ben visibili e probabilmente irreversibili, e che certamente non è innocua. Presumo che la legislazione tedesca e svedese non si discosti da quella italiana nel ritenere illecita la violenza fisica su persone, eventualmente anche consenzienti. Dunque non è qui, come in moltissimi altri casi, lampante la contraddizione tra i principi “democratici” e il comportamento reale?
Ma come si è detto, questa contraddizione è inevitabile dal momento in cui un’assemblea legislativa, con tutti i suoi limiti strutturali di funzionamento, pretende di usurpare funzioni non sue. Accanto all’autorità politica è infatti assolutamente indispensabile un’autorità non propriamente politica, ma morale e spirituale, la quale non può non distinguersi essenzialmente dalla prima.
Sarebbe ora un errore intendere questa affermazione quasi che essa volesse identificare l’autorità spirituale con il magistero della Chiesa Cattolica, o che si volesse anacronisticamente ristabilire il potere temporale pontificio. Per quanto infatti il magistero ecclesiastico possa avere, soprattutto per i credenti, un posto privilegiato nel relativo ambito, l’autorità morale è qualche cosa di assai più ampio, tanto che probabilmente non è possibile definirla in modo adeguato. Essa è la voce della tradizione spirituale e morale dell’umanità, che si esprime tanto nella religione, quanto nell’arte e nelle grandi opere della civiltà – e in tempi più recenti, a mio giudizio, anche nella scienza.
Quest’ultima precisazione ci suggerisce che uno dei compiti più urgenti è di trovare forme nuove e adeguate alla società moderna di autorità morale. Invece la società di oggi sempre più tende a sottrarsi ad essa, aiutata in questo dagli equivoci sul concetto di democrazia.
Al contrario la tradizione politica più accreditata non commetteva questo errore. Di ciò si potrebbero portare numerosi esempi, che dimostrano come il timore dello “stato etico” – concetto che non dovrebbe essere legato alla sua classica formulazione hegeliana – non sia che una irragionevole reazione ad abusi, certamente reali, ma non tali da giustificarla. Infatti “abusus non tollit usum” e, una volta eliminata dall’azione politica una forte connotazione etica, essa si presterà inevitabilmente ad abusi ancora più grandi – e bastano a dimostrarlo gli esempi sopra richiamati, dai quali appare chiaramente come uno stato “neutro” di fatto si pieghi a porre la sua autorità a servizio degli interessi più bassi.
Il primo esempio della migliore tradizione politica lo prenderemo sempre da Aristotele, il quale scrive nell’ultimo capitolo dell’ “Etica Nicomachea”:
«In generale la passione non sembra che ceda al ragionamento, bensì alla forza. Bisogna, dunque, che ci sia già in precedenza, in qualche modo, il carattere che è proprio della virtù, cioè un carattere che ama il bello e mal sopporta il brutto. Ma è difficile avere fin dalla giovinezza una retta guida alla virtù, se non si viene allevati sotto buone leggi, giacché il vivere con temperanza e con fortezza non piace alla massa, e soprattutto non piace ai giovani. Perciò bisogna che l’allevamento e le occupazioni dei giovani siano regolati da leggi, giacché non saranno penosi se saranno divenuti abituali. Certo non è sufficiente che i giovani abbiano magari un allevamento ed una educazione corretti, ma, poiché anche quando sono diventati uomini bisogna che li mettano in pratica e che vi si siano abituati, anche per questo campo abbiamo bisogno di leggi, e quindi in generale per tutta la vita: la massa, infatti, ubbidisce di più alla necessità che al ragionamento, e più alle punizioni che al bello. È per questo che alcuni pensano che i legislatori debbano, da una parte, esortare e stimolare alla virtù per amore del bello, nella speranza che diano retta coloro che sono stati in precedenza convenientemente guidati con le abitudini, e, dall’altra, stabilire castighi e pene per coloro che non si lasciano persuadere».
Osserviamo che il principio cristiano dell’interiorizzazione della morale si è confrontato per secoli con questo testo, accogliendone in pieno – a parte alcuni movimenti ereticali – il sano “realismo”.
Un esempio del tutto diverso ce lo offre Auguste Comte, il quale riteneva indispensabile un potere spirituale distinto da quello politico e in qualche modo ad esso superiore. Per questo ammirava la funzione storica della gerarchia cattolica, pur ritenendo che ormai il suo ruolo dovesse essere assunto dalla scienza – e in uno scritto risalente a diversi anni fa, in cui si tratta di una tesi immaginaria e di uno scienziato immaginario, distaccandomi dall’opinione di pressoché tutti gli autori cattolici, ho sostenuto che in questo egli non aveva tutti i torti (cfr. http://www.e-nowave.com/FrMassimo/MASSIMO_LAPPONI_tesi_di_laurea.zip )

IV

Proprio in questo periodo preelettorale sembra importante, dunque, richiamare le persone più responsabili sul fatto evidente che l’avvenire non si gioca essenzialmente soltanto nell’ambito delle assemblee legislative, ma in gran parte fuori di esse e spesso, purtroppo, anche contro di esse.
E vorrei osservare che l’uomo che molti ritengono il maggior esponente del pensiero politico liberale, Alexis Charles Henri Clérel de Tocqueville, autore di saggi che sono pietre miliari del liberalismo, come “L’Antico Regime e la Rivoluzione” e “La democrazia in America”, nello stesso tempo un convinto liberale ed un fervente cattolico, ebbe il merito di approfondire il contrasto eventuale fra la democrazia e la libertà, denunciando i pericoli di una sorta di “totalitarismo democratico” o di “dittatura della maggioranza”. Le due opere del Tocqueville sono entrambe pervase dalla convinzione che un sistema politico democratico possa degenerare e condurre a forme di dispotismo inaudito, in questo evidenziando le possibilità totalitarie e dittatoriali di una democrazia illiberale. La storia ha poi mostrato quanta ragione avesse questo grande pensatore, con la continuità ideologica fra il giacobinismo ed il socialismo sovietico.
Quale rimedio poneva il Tocqueville ai pericoli di ciò che egli definiva apertamente “tirannide della maggioranza”? Egli esaminava il caso della repubblica americana, liberale e democratica, individuando il fondamento delle sue leggi e della sua costituzione ed il loro buon funzionamento nei costumi, nel senso latino di mores, e nella religiosità. Alcuni capitoli de “La democrazia in America” lo dichiarano apertamente: si possono qui ricordare, fra i molti, “L’influenza dei costumi nella conservazione della repubblica democratica negli Stati Uniti”; “La religione considerata come istituzione politica: come essa contribuisce potentemente alla conservazione della repubblica democratica in America”; “L’influenza esercitata dalle credenze religiose sulla società politica negli Stati Uniti”. Il Tocqueville non proponeva un dominio delle istituzioni ecclesiastiche su quelle politiche, anzi egli lo respingeva. Tuttavia, mostrava come il funzionamento concreto della repubblica americana e delle sue istituzioni, quindi del complesso delle leggi vigenti, poggiasse su di una base culturale comune, ossia sul fondamento d’un insieme di valori e costumi condivisi di origine religiosa. La costituzione americana e le norme giuridiche di quel paese non erano quindi per così dire campate in aria, ma paragonabili ad un albero che affondava le sue radici nell’ “humus” della profonda religiosità dei cittadini americani, protestanti e cattolici, da cui traeva la propria linfa. L’insieme dei “mores” forniva inoltre un freno ed un limite alla “tirannide della maggioranza”, assicurando quindi che la democrazia non cadesse nel totalitarismo ed in definitiva fornendo una garanzia alla libertà del singolo.
Per portare un paragone riferito ad un’altra epoca storica, si può ricordare che il “princeps” nella Roma imperiale non era ritenuto dai giuristi essere legibus solutus in modo da avere un potere assoluto, poiché l’insieme delle norme giuridiche e dei “mores” a lui preesistenti ed a cui egli stesso doveva la propria legittimità ponevano dei limiti al suo operato ed alla sua autorità. In modo analogo, anche la democrazia americana descritta dal Tocqueville era temperata nella sua azione concreta dal complesso dei costumi e dei principi comuni agli Americani, che impedivano che essa sfociasse in una dittatura della maggioranza. Lungi dal violare la libertà, la religione e l’etica ne erano anzi custodi, assicurando che lo stato non potesse diventare onnipotente. La stessa nozione di “diritti dell’uomo” giudicati inalienabili è storicamente erede del concetto di diritto naturale, che dalla sua originaria formulazione in Aristotele è poi passato alla grande tradizione giuridica romana prima, alla teologia cattolica poi, per sfociare infine nella riflessione dei pensatori e giuristi dell’epoca moderna. Concetti come la sacralità della vita e l’intangibilità della coscienza, che sono centrali nel pensiero liberale ed imprescindibili ad ogni sistema politico che voglia definirsi realmente democratico, si sono formati in ambito religioso e postulando un “aequum” distinto dallo “ius”, un diritto naturale autonomo rispetto a quello positivo. Negare la loro validità rischia di aprire la strada ad un “assolutismo democratico”, in cui lo stato è legittimato a conculcare ed opprimere i propri sudditi.
Non credo, dunque, che questa prospettiva sia contraria alla tradizione liberale, come non credo che lo sia l’idea che un diritto naturale obiettivo, essenzialmente distinto dal diritto positivo, non sia affatto fonte di oppressione politica, ma al contrario sia l’unica reale salvaguardia della libertà.

di D. Massimo Lapponi e Marco Vigna

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