«E voi, mariti, amate le vostre mogli» (Ef 5, 25)

(pubblicato su lsblog il 25 gennaio 2016)

Il senso dell’esortazione di San Paolo sembra scontato, e quasi superfluo: è ovvio che chi si sposa lo fa perché ama sua moglie! Ma se si va a fondo della dottrina dell’apostolo, si scoprono orizzonti infinitamente più vasti.

Se, infatti, proseguiamo nella lettura della Lettera agli Efesini, troviamo queste parole, sulle quali non dobbiamo sorvolare: «come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5, 25-27).

Tralasciamo, per il momento, di indagare sul modo in cui dovrebbe realizzarsi questo amore sponsale del marito, chiamato ad imitare l’amore di Cristo per la Chiesa. Soffermiamoci ora, invece, su un fatto che facilmente può sfuggire: l’amore di Cristo per la Chiesa non è un corollario della sua missione di salvezza, ma, al contrario, ne costituisce proprio il centro e il motivo essenziale. Possiamo, cioè, con sicurezza affermare che la ragion d’essere dell’incarnazione e della redenzione di Cristo è di dare se stesso per la sua Chiesa al fine di purificarla e santificarla.

Se, dunque, il marito deve amare la moglie come Cristo ha amato la Chiesa, ciò vuol dire che l’amore per la sua sposa deve costituire lo scopo essenziale della sua vita e non un semplice accessorio, per quanto importante e gradito.

Per spiegare meglio questo punto, si potrebbe dire che Cristo, per salvare il mondo, non si è impegnato nella politica, nella finanza, nell’industria, nella guerra o, in qualsiasi altro modo, nel dominio materiale del mondo. Al contrario, tutta la sua parola e la sua opera sono state rivolte a richiamare gli uomini a porre i loro veri interessi in ciò che un tempo si chiamava “la vita dell’anima”. «Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?» (Mc 8, 36).

La parola greca “psychè”, qui tradotta da tutte le versioni giustamente “anima”, significa anche “vita”: vita e anima tendono ad identificarsi, quasi a sottolineare che la vera vita del mondo si fonda nell’intimo del cuore dell’uomo. Ora la donna, come è generatrice, nutrice e custode della vita, allo stesso titolo è generatrice, nutrice e custode della vita dell’anima.

L’uomo è portato a disperdersi nel dominio materiale del mondo – e la Bibbia esprime questa signoria con le parole: «l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche» (Gn 2, 20), dove «imporre il nome» indica appunto il dominio dell’uomo su tutto il creato a lui inferiore. Ma in questo non può trovare il suo vero fine, né la sua vera felicità: «ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile» (Gn 2, 20).

Poteva l’uomo realizzare se stesso in questa sorta di solitudine interiore? Il mondo sarà pieno di meraviglie e la chiamata che l’uomo sente in se stesso a dominarlo sarà esaltante; Dio stesso apparirà sull’orizzonte del mondo visibile come sorgente dello splendore della natura e della dignità spirituale dell’uomo: «Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1, 20). Ma l’uomo non si sentiva raggelare il cuore in un mondo in cui non vi era nessuno «che gli fosse simile»? E Dio stesso doveva apparirgli come un essere misterioso e lontano, estraneo all’intima aspirazione del suo cuore.

Ed ecco, dunque, che Dio dà l’ultimo tocco alla sua creazione, il tocco della perfezione.

«Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:

“Questa volta essa
è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa.
La si chiamerà donna
perché dall’uomo è stata tolta”.

Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2, 21-24).

La creazione ha così salito un gradino immenso, ha fatto un salto di qualità, le si è aperta una nuova dimensione. Certamente senza la precedente sublimità della creazione della natura e dell’uomo la donna non avrebbe avuto il suo vero senso, ma, reciprocamente, senza la donna, che viene a porsi come culmine della creazione visibile, l’universo non avrebbe trovato la voce per esprimere il suo mistero, e l’uomo non avrebbe trovato quell’anima simile a sé in cui riversare l’impeto del suo cuore e in cui scoprire il volto umano e amoroso di Dio. Certamente si possono applicare anche alla prima Eva le parole che la Bibbia applica alla seconda Eva:

«Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle» (Ap 12, 1).

Tutto il creato si fa quasi ornamento alla bellezza della sposa dell’uomo!

La donna, dunque, richiama l’uomo dalla dispersione della sua opera di dominatore del mondo a condividere con lei la sublime missione di custode della vita, mentre nello stesso tempo ad ambedue si svela la misteriosa chiamata a partecipare alla vita stessa di Dio, che ha manifestato se stesso non solo come Signore dell’universo, ma, più ancora, come fonte di amore e di felicità.

Se con il peccato l’uomo regredisce dalla sua missione di sposo e di custode della vita per considerarsi principalmente dominatore del mondo materiale, e ridiviene, perciò, estraneo alla vita di Dio, ecco che ora Gesù lo richiama al suo vero destino. In che modo?

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L’amore tra l’uomo e la donna conteneva un’aspirazione e una promessa. Svelando il volto “umano” di Dio accendeva nell’uomo e nella donna il desiderio di entrare in comunione con lui, ma, nello stesso tempo, nella vita generata dal loro amore c’era il presentimento che questa comunione si sarebbe realizzata attraverso la nascita di Dio stesso nella vita del mondo.

Questo mistero era stato offuscato dal peccato: l’uomo si era gettato nell’opera orgogliosa del dominio materiale del mondo e la donna era stata relegata nella vita privata, come oggetto di dispotismo e di appagamento carnale. A sua volta la donna, cosciente che tra le soddisfazioni materiali che il mondo poteva offrire all’uomo, nessuna poteva competere con lei, aveva cercato di ribaltare la sua sottomissione all’uomo, fisicamente più forte, facendo leva sul suo fascino carnale e sulla sua conseguente superiorità psicologica. Ne era nato un tragico conflitto, destinato ad insanguinare tutta la vita del mondo – come appare simboleggiato, tra tante altre cose, dalla guerra di Troia.

Eppure l’aspirazione ad un diverso destino non era venuta mai meno. Ora essa trovava la sua realizzazione in Cristo.

Se Cristo doveva ricondurre l’uomo a porre l’amore e la custodia della vita e della vita dell’anima al di sopra del lavoro per il domino del mondo, egli necessariamente doveva ristabilire l’amore tra l’uomo e la donna al centro della vita del mondo, e perciò quale essenziale interesse e missione dell’uomo: a questa missione doveva essere subordinata ogni altra attività umana, fosse essa industriale, politica, finanziaria, intellettuale o militare. Ma per ottenere questo la donna doveva essere ristabilita nella sua dignità di culmine della creazione e nello stesso tempo purificata dal decadimento a maliarda seduttrice.

Abbiamo letto nella Lettera agli Efesini che «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5, 25-27). Si dirà che qui l’apostolo parla della Chiesa, non della donna. Ma la Chiesa, se non è un concetto astratto, è composta di uomini e di donne, e in essa le donne generano i figli e adempiono la missione della Chiesa di essere madre, mentre gli uomini partecipano alla missione di Cristo stesso, sposo e padre della nuova umanità. È infatti una nuova umanità quella in cui l’uomo non segue più il proprio istinto dominatore, ma ritrova se stesso essenzialmente nella sua missione di sposo e di padre e ristabilisce, perciò, la donna nella sua dignità di culmine della creazione e di via regale alla comunione con Dio nel cielo e con Dio resosi uomo in terra.

Ma per quale via Cristo ha riabilitato e purificato la donna per renderla «santa e immacolata», e perciò degna della sua divina missione? Attraverso il sacrificio dell’orgoglio dell’uomo, umiliato e immolato sulla croce. È questa umiliazione dell’arroganza virile che ha guadagnato a Cristo l’amore incondizionato della donna, ed è questo esempio che lo sposo cristiano è esortato ad imitare, quando gli si dice: «amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa» (Ef 5, 25-26). E certamente questa umiliazione, questa conversione a non considerarsi essenzialmente realizzato come lavoratore del mondo, bensì a trovare se stesso soltanto nell’amore per la sua sposa, non è un fatto accessorio: essa costituisce il senso vero della sua vita.

Perciò il primo frutto della redenzione fu il dono fatto al genere umano di una donna perfettamente santa, che avrebbe dato la vita umana a Cristo e sarebbe stata un modello per ogni donna e un richiamo al suo vero fine per ogni uomo. «Ecco la tua madre!» (Gv 19, 27) Gesù dice, nel momento più sacro della redenzione, a tutti i discepoli che egli ama.

Come se la prima creazione della donna, formata con la costola di Adamo, fosse andata male – forse perché Adamo non era abbastanza santo perché da lui scaturisse la perfezione della creazione – la vera e perfetta donna fu tratta di nuovo dal costato di Cristo quando il soldato lo trafisse con la sua lancia.

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Ma la conversione più profonda, l’umiliazione più essenziale dell’orgoglio dell’uomo e della sua prevaricazione nei confronti della donna si ha quando l’uomo segue Cristo fino in fondo nella sua missione redentiva e sacerdotale. Quando l’uomo rinuncia ad ogni altro scopo della vita e dona tutto se stesso per la sola realizzazione della nuova umanità, risalendo fino alla sorgente, cioè fino a Cristo e alla sua purificazione dell’uomo e della donna: della donna attraverso l’umiliazione dell’uomo e del mondo attraverso la celebrazione di un rinnovato patto nuziale tra l’uomo e la donna purificati.

La purificazione dell’orgoglio dell’uomo giunge, allora, fino alla rinuncia alla soddisfazione umana delle nozze terrene per ascendere a nozze più alte: a condurre la donna, attraverso la scoperta di un amore più alto, a ritrovare la sua vera essenza e a illuminare, attraverso di essa, anche la sua dimensione carnale, e a stimolare, così, potentemente anche gli sposi terreni a ridonare al mondo un’umanità irradiata dalla luce di Dio. Perciò il sacerdote non è meno uomo e meno “sposo” dello sposo terreno. Lo è, anzi, di più, perché è in più intima e perfetta comunione e identificazione con il vero Sposo, Cristo.

Quando il sacerdote pronuncia quelle solenni parole: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue», tutto il mistero del cielo e della terra, dell’uomo e della donna, del Verbo fatto carne e del rinnovamento del genere umano sono fatti presenti.

A comporre quel pane e quel vino hanno contribuito tutte le stelle del cielo e tutti gli elementi meravigliosi del mondo; a generare quel corpo e quel sangue hanno contributo lo Spirito Santo di Dio e l’umanità immacolata della Vergine santa – e , dunque, insieme all’ispirazione del cielo, la donna richiamata alla sua missione di tramite privilegiato tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e se stesso; nella celebrazione di quel banchetto, ogni banchetto trova il suo senso di celebrazione gioiosa della grandi opere di Dio, della bellezza e dolcezza di tutta la creazione, che trova il suo senso e culmine nella donna e nell’amore che essa suscita nel cuore dell’uomo – per questo ogni banchetto è, in un certo senso, un banchetto nuziale; da quel sacrificio, rinnovato nel sacramento, in cui Cristo ha umiliato e purificato l’orgoglio e la prevaricazione dell’uomo e ha attratto a sé l’amore purificato e incondizionato della donna, scaturisce, come da una sorgente divina, la vita del nuovo genere umano.

Ha un senso, dunque, parlare di “sacerdozio ministeriale” della donna?

di Don Massimo Lapponi