L’angoscia più grande dell’età dell’ansia

(inedito)

Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per gustare la dolcezza del Signore
ed ammirare il suo santuario.

Sl 26, 4

Ci impressionava molto nelle nostre letture l’affermazione che pena e gloria sarebbero durate per sempre. Ci accadeva, pertanto, di passare molto tempo a parlare di quest’argomento e godevamo di ripetere molte volte: sempre, sempre, sempre! Nel pronunciare a lungo tale parola, piacque al Signore che mi restasse impresso nell’anima, fin dall’infanzia, il cammino della verità.

S. Teresa d’Avila, Vita, c. 1

Ho avuto recentemente occasione di discutere con un amico sociologo sulla sofferenza delle donne nella società dei tempi passati e nella società attuale. I pareri non erano sempre concordi, dati anche i diversi metodi di conoscenza e criteri di valutazione. Ciò mi ha spinto a riflettere a lungo sull’argomento e a chiedermi se non sarebbe più corretto non isolare il problema della sofferenza della donna dal problema più ampio della sofferenza generalizzata, per l’uomo non meno che per la donna, in quella che il poeta W.H. Auden già nel 1947 definiva “the age of anxiety” – uno dei punti che distinguono il mio modo di considerare i fenomeni sociali rispetto all’approccio dell’amico sociologo è che generalmente le sue analisi hanno il respiro del breve periodo, mentre, grazie anche alla differenza di generazione, personalmente preferisco considerare il presente nella luce delle esperienze passate.
A questo proposito, ricordo un’osservazione fatta molti decenni fa da un giovane studente di sociologia: l’uomo ha bisogno di un tempo congruo – egli diceva – per adattarsi a nuove situazioni di esistenza, mentre i cambiamenti che avvengono oggi nella società sono così rapidi e frequenti che non gli lasciano il tempo necessario per una sana adeguazione.
L’osservazione è interessante, e certamente i decenni trascorsi non la rendono obsoleta, anzi, non fanno che presentare una situazione più drammatica di quella da essa descritta. Infatti la velocità e la frequenza dei cambiamenti da allora non ha fatto che aumentare e ha investito ambiti sempre più vasti e profondi, dalle condizioni materiali e ambientali dell’esistenza quotidiana, alla sfera interiore delle convinzioni e dei sentimenti, ai legami familiari, alle attività lavorative, all’assetto politico, geografico e culturale dei popoli.
Vorrei ora attirare l’attenzione su un aspetto particolare di questo fenomeno: la grande instabilità che investe la vita dell’uomo di oggi nei suoi legami umani, nei suoi luoghi di residenza e nei suoi impegni e interessi di studio, di lavoro o di svago. Questa instabilità, mentre agli occhi dei giovani assume facilmente l’aspetto seducente di una promessa di inesauribile ricchezza di vita, di esperienza e di emozione affettiva, a lungo andare rivela il suo carattere distruttivo di ogni appagamento, amore profondo e pace interiore.
Ricordo di aver letto in un romanzo della prima metà del Novecento che la vita è la continua ricerca di ragioni o scuse più o meno buone per non separarci dalle persone care. Probabilmente molti oggi non si riconoscerebbero in questa definizione, e tuttavia non credo che essa non susciti ancora, nella maggior parte di noi, una segreta nostalgia per condizioni di vita diverse. Se, infatti, la facoltà giuridica di rompere ogni relazione e la tendenza generalizzata a non prendere alcun genere di impegno a lunga scadenza è universalmente vantata e sentita come una conquista della libertà dell’uomo moderno, non si può certamente cancellare dall’esperienza il fatto innegabile che la risultanza di questa instabilità quasi programmatica si risolve in un’irrimediabile solitudine già nell’età matura, e più ancora nella vecchiaia. Un vecchio o una vecchia possono essere adorati in quanto nonni, ma certamente non possono esserlo in quanto relitti di un’esistenza discontinua.
Le premesse per questa risultanza si trovano già in modo drammaticamente determinante nell’infanzia, e ancor più nell’adolescenza, là dove la propaganda ideologica e commerciale fanno a gara per illudere l’ignaro nuovo cittadino del mondo con la suggestione che la sua libertà e la sua felicità siano legate a un’indeterminatezza che si sottrae a ogni scelta coinvolgente e che pare destinata a durare il più a lungo possibile.
Che si tratti di un’illusione bastano a dimostrarlo le laceranti esperienze di ripetute e continue separazioni da persone, ambienti e luoghi – e spesso la radicale trasformazione o distruzione di questi ultimi – così comuni nella moderna realtà sociale, e l’angosciosa percezione che questa danza senza scopo sembra destinata a non aver mai fine.
In questo panorama, a prima vista affascinante, ma in ultima analisi desolante, sembra che la sola cosa stabile sia l’illimitata possibilità di accesso a una realtà virtuale che si presenta come sottratta al tempo e allo spazio. Certamente la possibilità di rimanere in contatto anche a enormi distanze, offerta dai moderni mezzi di comunicazione, è un vantaggio incalcolabile, che deve essere tenuto in seria considerazione. Ma può da sola una dimensione virtuale surrogare la fondamentale mancanza di stabilità nei luoghi, nelle relazioni, negli affetti e nei relativi impegni? Sembra che venendo meno la sacralità propria tanto della consacrazione religiosa quanto del sacramento nuziale, venga meno anche la capacità dell’uomo di trovare un fine a cui dedicare, senza ripensamenti, la propria inamovibile fedeltà e in cui trovare, nonostante, e forse anche grazie agli ostacoli più ardui, la propria pace e la propria felicità.
Ma proviamo a considerare lo stesso problema dall’alto, cioè da una prospettiva meno sociologica e più filosofica e teologica.
Nella visione cristiana tradizionale, ogni bene creato rispecchia, se pure a un’infinita distanza, la bontà del Creatore. Dunque ogni desiderio di un qualsiasi bene segretamente cela il desiderio di Dio. Questa misteriosa e incancellabile aspirazione, però, tanto più si rende manifesta quanto più il bene desiderato assomiglia al Bene increato.
Quali sono i beni che maggiormente rispecchiano l’Essere infinito? Certamente i beni tradizionalmente detti “onesti” più che non i beni “utili” o “dilettevoli”. Mentre gli ultimi attraggono per la loro piacevolezza sensibile e i secondi in vista di qualche fine ulteriore a cui servono, i primi sono beni “degni di onore”, cioè tali da essere desiderati per se stessi. “Degna d’onore” sarà certamente la persona umana. Potrà anche essere la Divinità, la patria, una legislazione, un costume di vita o un’opera d’arte: in ogni caso vi è sempre un riferimento, almeno indiretto, alla persona e all’amore personale. E’ il cosiddetto “amor amicitiae” che si oppone all’“amor concupiscentiae”. L’uno e l’altro nascondono il desiderio di Dio, ma il primo in modo più proprio ed esplicito.
C’è però un carattere dell’Essere divino che le creature terrene, anche le più nobili, non possono imitare se non in modo molto imperfetto: l’eternità. Non c’è dubbio che uno degli aspetti dell’amore umano che dimostra la sua aspirazione alla Divinità è il desiderio di infinità e di eternità – i due termini si implicano a vicenda – che sempre lo pervade.
L’esclamazione di Agostino: “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” è nota e spesso citata: ma non se ne tiene gran ché conto, quasi si trattasse di un pio esercizio letterario. Essa invece contiene uno dei più profondi misteri dell’agire umano, e proprio ai giorni nostri potrebbe gettare maggior luce sulle problematiche sociali che non le più scaltrite analisi sociologiche.
Abbiamo citato la definizione di Auden: “età dell’ansia”, riferita ai tempi moderni. Agostino parla di “cuore inquieto”: non si può negare che vi sia una suggestiva assonanza tra le parole dei due autori, pur distanti tra loro un millennio e mezzo.
Certamente se il nostro cuore cerca la pace in questa vita, non potrà trovarla se non in quei beni che maggiormente assomigliano al Bene supremo, e che perciò maggiormente contribuiscono ad avvicinarci ad esso. Ora, se uno dei caratteri propri dell’Essere infinito è l’eternità, la stabilità darà ai beni terreni la maggiore somiglianza con il Creatore di tutte le cose, e viceversa l’instabilità e la precarietà saranno i caratteri che maggiormente allontaneranno le realtà create dal modello divino.
Abbiamo visto come uno dei tratti che più drammaticamente segnano la moderna società sia la sempre crescente mobilità e la rapidità dei cambiamenti, tali che neanche lasciano all’uomo il tempo per un normale adattamento biologico e psichico. Ciò non può che aumentare a dismisura la precarietà di ogni rapporto, tanto di legittimo possesso quanto di amicizia e di amore. Se dunque la sentenza di Agostino è vera, l’inquietudine umana non può che dilagare sempre maggiormente, confermando in crescendo il titolo di “età dell’ansia” giustamente assegnato ai nostri tempi.
Quali siano gli effetti di questa inquietudine e di questa ansia, non sarebbe difficile dirlo, se ce ne fosse bisogno.
Ma a proposito di precarietà – un termine oggi divenuto di moda, anche per la sua applicazione sul piano economico – non sarebbe fuori luogo fare un confronto con altri tempi: ad esempio quelli successivi alla caduta dell’Impero Romano di occidente, quando invasioni e governi barbarici, guerre e pestilenze sembravano celebrare le esequie di una grande civiltà, senza che si vedessero i segni dell’inizio di una civiltà nuova. Precarietà, instabilità, incertezza: questo lo stato d’animo delle popolazioni che assistevano inermi alle stragi dei Goti e dei Bizantini, mentre il pontefice Gregorio Magno non cessava di piangere sulle rovine di un impero, tra le quali l’unica cosa che rimaneva ferma e incrollabile ancora di speranza era “la nostra fede”.
E tra i segni maggiormente visibili della fede vi era la vita e l’opera di San Benedetto, al quale il grande pontefice dedicava l’intero secondo libro dei “Dialoghi”.
Qual è il tratto più caratteristico dell’opera di San Benedetto? Penso che si possa rispondere: la stabilità. E’ infatti propria del monachesimo benedettino la “stabilitas loci”, cioè la professione che lega il monaco alla sua comunità per tutta la vita. Gli ordini più recenti non hanno questa caratteristica, essendo nati per rispondere ad esigenze storiche diverse. Ma si potrebbe con buone ragioni sostenere che proprio questo tratto dell’antico monachesimo è uno degli aspetti più rispondenti ai bisogni dell’età nostra.
Tutti i beni, umani e divini, hanno bisogno di stabilità per poter incidere efficacemente sulla vita degli uomini, e la “stabilitas loci” non è che il “contenitore” e il segno visibile di stabilità più sostanziali: la stabilità della fede, della carità, dell’umanità. Infatti la fede ha bisogno di affermarsi e consolidarsi in opere ed espressioni che esigono la dedizione di un’intera vita, come la carità tra gli uomini non può radicarsi se non attraverso una convivenza continuata e costante, e tutto ciò che è umana civiltà ha bisogno di essere giorno per giorno ripetutamente scolpito nell’azione e nel linguaggio, come anche negli oggetti materiali in cui la vita umana trova il necessario supporto e la necessaria espressione.
In due precedenti articoli – https://massimolapponi.wordpress.com/e-bello-per-noi-stare-qui-mc-9-5/, https://massimolapponi.wordpress.com/larchitettura-e-i-voti-monastici/ – avevo cercato di evidenziare come nelle forme di vita, di lavoro, di espressione liturgica e nelle stesse strutture architettoniche e artistiche di un monastero si perpetuino in maniera stabile non solo gli ideali della vita consacrata, ma anche la presenza di quanti attraverso gli anni e i secoli hanno contribuito ad arricchire giorno per giorno, con l’offerta di se stessi, la famiglia religiosa e la sua dimora, e come il messaggio che scaturisce dalla fisicità stessa del monastero costituisca un suggestivo invito ad “abitare” degnamente “nella casa del Signore”. Vorrei qui aggiungere che le mura monastiche hanno anche la virtù di irradiare la presenza dell’eternità nel mondo degli uomini e di essere perciò fonte di ispirazione per una vita sociale e familiare che voglia sottrarsi all’impero della precarietà e dell’effimero e ritrovare la stabilità e la sicurezza del lavoro, dell’umana fiducia e dell’amore, quasi specchio e preludio dell’eterna pace del cielo.

di D. Massimo Lapponi

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