Letteratura per la rivoluzione di Ottobre

Esattamente cento anni dopo l’avvio dei cento giorni che sconvolsero il mondo, la Russia è nuovamente in carreggiata tra i protagonisti mondiali assoluti.
Sono giorni di celebrazioni sfarzose, sì, ma anche di bilancio storico, e forse questo aspetto è il fattore determinante per comprendere le luci basse e le voci in sordina che si avvertono in Russia a proposito del lieto evento. Quel che abbiamo imparato, anche da grandi dissidenti russi, è che il Popolo va amato, lo Stato no.

di Elisabetta Cipriani

Un secolo esatto è trascorso dai cento
giorni che sconvolsero il mondo: la
presa del Palazzo d’Inverno, il colpo
di Stato bolscevico, la rivoluzione d’ottobre
che segnò l’inizio del comunismo sovietico.
Or non è molto (sembra impossibile che fosse
solo ieri) masse intere di diseredati dai quattro
angoli della terra guardarono a quell’evento
con orgoglio e trepidazione messianica. Oggi
pare invece che la commemorazione dell’ottobre
avvenga in sordina nella stessa Russia:
forse perché sono in pochi, lì come altrove,
quelli che hanno la forza di guardare negli
occhi il volto reale dell’utopia. Eppure quegli
epici fatti, compresa la tragedia che ne seguì,
sono polvere che non può essere affatto riposta
sotto il tappeto della storia. A maggior
ragione in questo primo scorcio di XXI secolo
in cui la Russia rivendica nuovamente un ruolo
da protagonista nel mondo: ed è una Russia
al solito grandiosa nelle sue aspirazioni, titanica
nelle opposizioni che suscita, ambigua e
persino proterva nel suo modo di porsi sulla
scena internazionale. “Rus, dove stai correndo?
Non dà risposta”. Di nuovo l’uccellotrojka
di gogoliana memoria è muto ed enigmatico,
ancora le sue istanze sono ineludibili,
tanto che per comprenderlo non si può fare
a meno di guardare al suo recente passato.
Alla luce della lezione del compianto padre
Romano Scalfi, noi intendiamo leggere invece
quel passato e farne memoria per scorgervi
non solo moniti al nostro presente, ma un
nutrimento spirituale di inestimabile valore,
racchiuso nell’esperienza di coloro che alla
violenza rivoluzionaria opposero l’inerme resistenza
del dissenso. A questo proposito, si
richiamerà l’attenzione del lettore sul libro
che forse meglio rappresenta un compendio
di tutta la letteratura russa della dissidenza:
quel “Tutto scorre”, ibrido di romanzo e saggio,
che Vassilij Grossman riscrisse dopo il
sequestro delle sue carte ad opera del KGB
nel ’61 e che, dopo una circolazione clandestina
in samizdat, vide le stampe postumo a
Francoforte nel 1970. Il libro di Grossman è
il prescelto tra molti, più degli arcinoti “Arcipelago
gulag” di Solzenicyn o “Racconti della
Kolyma” di Shalamov, non tanto o non solo
per la mesta storia del sopravvissuto ai gulag
Ivan Grigorievic che stenta a reinserirsi nell’ipocrita
società post-staliniana, dove nessuno
intende farsi carico della complicità morale
per quanto avvenuto e l’esistenza stessa dei
reduci è un atto d’accusa intollerabile al conformismo
dei benpensanti, quanto perché le
riflessioni del protagonista, relitto umano in
cui ancora vibra una coscienza indomita, diventano
una dura requisitoria contro Lenin,
la rivoluzione e la sua genesi. Una requisitoria
come altrove è difficile trovare con la stessa
pregnanza e lucidità. Troppo comodo e
semplicistico, infatti, rinvenire in Stalin il folle
capro espiatorio che spiegherebbe le purghe
e il bagno di sangue: troppo facile e finto il
lavacro per il marxismo-leninismo, troppo
agevole la via d’uscita per mille anni di storia
russa liberticida che si autoassolverebbero
grazie alle colpe di uno. Invece no: per Vassilij
Grossman il disprezzo russo della libertà viene
di lontano, e in Lenin si incarna pienamente,
prima che in Stalin, in modo inequivocabile:
“Vladimir Ilic Lenin: (…) l’uomo che aveva proclamato
l’era della rivoluzione socialista mondiale,
instaurato la dittatura del proletariato
in Russia, colui che aveva liquidato tutti i partiti
rivoluzionari tranne uno solo – quello che
a lui sembrava il più rivoluzionario – che aveva
liquidato l’Assemblea Costituente, rappresentativa
di tutte le classi e i partiti della Russia
post-rivoluzionaria, colui che aveva creato
i soviet dove, secondo la sua idea, avrebbero
avuto rappresentanza solo gli operai e i contadini
rivoluzionari. (…) Com’era possibile che
lui, uno che andava a teatro in galleria con la
sua giacca vecchiotta e la cravatta gualcita,
ascoltava l’Appassionata, leggeva e rileggeva
Guerra e pace (…) diventasse il fondatore
di quello Stato che decorava con la più alta
decorazione – la sua, la decorazione di Lenin
– il petto di Jagoda, Ezov, Berija…? (…) L’ottobre
mise in risalto gli elementi del carattere
di Vladimir Ilic necessari all’ottobre stesso,
scartò quelli inutili. Nel corso della storia del
movimento rivoluzionario russo, elementi
d’amore verso il popolo (…) si mescolano ad
elementi diametralmente opposti, anch’essi
presenti in molti rivoluzionari riformatori russi:
il disprezzo e l’inflessibilità verso la sofferenza
umana, il culto del principio astratto, la
ferma volontà di sterminare non solo i nemici,
ma anche i compagni di causa, se appena si
fossero allontanati anche solo di uno scrupolo
dalla interpretazione di quei principi
astratti. La settaria costanza nel perseguire
lo scopo, la pronta disposizione a soffocare la
libertà oggi esistente per una libertà immaginaria,
a distruggere i principi morali quotidiani
per quelli a venire. (…) Mai egli ammise che,
sia pure parzialmente, gli avversari potessero
avere ragione, che, sia pure parzialmente, egli
avesse torto. ‘Venduto, lacchè, servo, mercenario,
agente, Giuda, corrotto per trenta
denari’, con tali parole Lenin definiva spesso
i suoi oppositori. In un dibattito Lenin non
cercava di convincere l’avversario. Di solito
non gli si rivolgeva neppure, egli si rivolgeva
ai testimoni della discussione. Il suo scopo era
di sbeffeggiare, compromettere l’avversario agli
occhi dei presenti. In un dibattito Lenin non
cercava la verità, cercava la vittoria”.
Agli occhi di Grossman, con tutta la sua pretesa
retorica rivoluzionaria, Lenin non è affatto
un rivoluzionario. “Solo coloro che attentano al fondamento
basilare della vecchia Russia – alla sua
anima schiava – sono dei veri rivoluzionari.”
Lenin di quell’anima schiava è figlio legittimo,
perché è lo stesso sviluppo statale russo,
unito al messianismo declamatorio di tanta
parte della storia del pensiero russo, ad essere
bacato dell’identico germe che ne guasta
opere e intenti. Grossman non lo dice, lo
avrebbe detto Solov’ev in un altro splendido
volume (“La Russia e la chiesa universale”),
ma quella bacatura nasce probabilmente col
cesaropapismo bizantino che la Russia importò
entusiasticamente, e con la sottomissione
della Chiesa ortodossa allo Stato – la sua secolare
riduzione a dicastero per gli affari religiosi
del potere temporale. Grossman non
lo dice, afferma tuttavia: “Il sistema statale
russo, nato in Asia ma abbigliato all’europea,
non è storico, ma metastorico. Il suo principio
è universale, incrollabile, applicabile a tutti
i regimi della Russia lungo tutta la sua millenaria
storia”. Una sola volta nella storia di
questo immenso paese si dette l’occasione di
rompere le maglie che stringevano il popolo
in un’unica rete d’oppressione: fu il febbraio
’17, con la caduta dello zar. I sette mesi che
ne seguirono dispiegarono pressoché infinite
possibilità di fronte alla nazione: soprattutto,
per la prima volta il liberalismo provò a diventare
prassi in un paese che ne ignorava
lo spirito. “Come sarebbe diventata la Russia,
qual carattere avrebbe assunto, qualora avesse
rifiutato il millenario rapporto esistente fra
il suo sviluppo e la sua schiavitù?
Nessuno lo sapeva. Nel febbraio 1917 si
aprì dinanzi alla Russia la strada della libertà. La
Russia scelse Lenin”. Ovvero non lo scelse, bensì
questi le si impose con un colpo di Stato, il quale
però sembrò di nuovo ribadire il fatalistico legame
tra storia russa e asservimento. Un legame
che Grossman rinviene sinistramente
nei sogni più generosi, più romantici, più
tragicamente puri delle menti migliori della
Russia: nei suoi grandi scrittori ottocenteschi, Dostoevskij
in primis. “L’anima russa, onniamalgamente
e panumanista, accoglierà in sé con fraterno
amore tutti i nostri fratelli e, alla fine,
pronuncerà magari la parola definitiva della
grande armonia generale, del definitivo accordo
fraterno di tutti i popoli secondo la
legge evangelica del Cristo…” sosteneva infatti
un Dostoevskij che sarebbe piaciuto ai
putiniani d’oggidì e non solo. Ma Grossman a
quest’ideale misticheggiante fa barba e contropelo:
“I profeti del diciannovesimo secolo
predicevano che in futuro i Russi si sarebbero
messi alla testa dello sviluppo spirituale dei
popoli non solo europei, ma del mondo intero.(…)
Tutti loro videro la forza dell’anima
russa, divinarono il significato che avrebbe
avuto per il mondo, ma non videro che i tratti
caratteristici dell’anima russa non sono nati
dalla libertà, che l’anima russa è schiava da
millenni. Cosa può dare al mondo una schiava
millenaria, pur se divenuta onnipotente?” – e
ancora, amaramente: “Dov’è mai la speranza
della Russia, se perfino i suoi grandi profeti
non distinguono la libertà dalla schiavitù?
Dov’è il tempo dell’anima russa libera e
umana? Quando mai verrà quel giorno?”.
Il tempo dell’anima russa libera e umana forse
non è ancora giunto, ancora adesso ignoriamo
la risposta a certe domande e Grossman
stesso l’ignorava. Ma egli non temette
d’affondare il bisturi nella piaga, segnando
la strada a tutti coloro che non ricusano di
chiamare il male col suo nome, ricercandone
le cause per saperlo quanto meno riconoscere
nelle sue manifestazioni storiche:
e in questo riconoscimento vedono il primo
passo di un combattimento a viso aperto,
che è sempre un combattimento spirituale.
Nemmeno ad esso del resto Grossman si
sottrasse: anzi, persino qui paradossalmente
risultò vincitore. Lui, che la persecuzione
del regime costrinse al silenzio, lui che il
tormento divorò sotto le spoglie di un male
incurabile, ciononostante affidò alle pagine
un’assurda certezza, una spes contra spem
che è il vero pegno della sua scrittura: il baluardo
inviolabile della coscienza, contro cui
nessuna tirannide può prevalere. “La forza
della rivoluzione popolare, iniziata nel febbraio
1917, era così grande che neppure lo
Stato dittatoriale è riuscito a soffocarla. Nella
tenebra più fonda, in profondo segreto, la
libertà andava formandosi, mentre alla superficie
della terra, a tutti evidente, correva
rapido il fiume che spazzava ogni cosa sul
suo cammino. (…) Per grandiosi che siano i
grattacieli e potenti i cannoni, per illimitato
che sia il potere dello Stato e possenti gli
imperi, tutto ciò non è che fumo e nebbia,
destinato a scomparire. Rimane, si sviluppa
e vive soltanto la vera forza, che consiste in
una sola cosa – nella libertà. Vivere significa
essere un uomo libero. Non tutto ciò che è
reale è razionale. Tutto ciò che è disumano è
assurdo e inutile”.
Inoltre non credo esista ricostruzione più efficace
dell’holodomor ucraino di quella che
si può leggere all’interno di questo libro. È
qui che a chiare lettere come non mai si osa
l’equiparazione tra totalitarismi: nazismo e
comunismo accomunati non solo dal binomio
terrore-propaganda, ma dal meccanismo psicologico
perverso con il quale si è fatta ricadere
la responsabilità d’ogni male su una categoria
espiatoria: gli ebrei da un lato, i kulaki
o i controrivoluzionari dall’altro. Parallelismo
per molti ancora troppo audace, eppure ad
arrischiarlo è uno scrittore ebreo-russo che
fu il primo giornalista sovietico ad entrare a
Treblinka: l’autorevolezza del giudizio pare
fuori discussione.
In conclusione, noi non sappiamo dove corra
l’uccello-trojka, per quali mete s’involi:
sappiamo però per dove è passato e perché,
anche grazie ad opere come questa. Sappiamo
per bocca dei grandi dissidenti russi che è
bene non fidarsi dello Stato russo; che l’anima
russa è grande, che come ogni cosa umana è
imperfetta, che il suo più alto lascito è la sua
capacità di resistenza e di speranza oltre ogni
devastazione.
Si sarebbe quasi tentati di ringraziare i suoi
aguzzini per la felix culpa che ci valse la bellezza
di “Tutto scorre”, ma ancor più siamo
grati ai misteriosi e provvidenziali meandri
carsici che lo hanno nascosto, conservato
e poi reso alla luce. In suo nome è possibile
celebrare degnamente questo centenario
dell’ottobre rosso.