Per il rinnovamento della vita monastica

di Don Massimo Lapponi

1. Sono già molti decenni, per non dire di più, che l`ordine benedettino, come in genere la vita claustrale, sta attraversando una grande crisi, dalla quale ancora non è uscito. Si può dire, anzi, che la crisi sembra essersi quasi amalgamata alla vita dei monasteri come una sorta di infezione cronica, maligna e distruttiva. Non possiamo certamente negare che molti generosi sforzi sono stati fatti da religiosi e religiose particolarmente dotati per operare un risveglio dell`ordine e non possiamo non ammirare tutto ciò che essi hanno realizzato e i risultati che hanno ottenuto nell`uno o nell`altro centro monastico. E tuttavia rimane il fatto che ancora manca una presa di coscienza risolutiva, che metta in luce le vere cause della crisi e indichi una via sicura per superarla. Si ha l`impressione che, in mancanza di una parola chiarificatrice, nell`attuale situazione di generale smarrimento della Chiesa e della società, la crisi dei monasteri declini verso un loro progressivo e inarrestabile logoramento.

2. Parlavamo di cause. Interroghiamo la storia. Nel declinare del secolo XVIII l`imperatore asburgico Giuseppe II fece chiudere un numero impressionante di monasteri maschili e femminili in tutto l`impero, mandando spesso in mezzo alla strada religiosi e religiose con i soli abiti indosso. Perché? La risposta si può facilmente ricavare dalla circostanza che il medesimo imperatore costrinse tutti i monasteri rimasti aperti a dedicarsi ad un`attività socialmente utile, quale ad esempio l`insegnamento. Per la mentalità che si andava diffondendo nell`Illuminismo settecentesco i monasteri di clausura, dediti alla preghiera e al lavoro in una vita separata dalla società, erano inutili. Giuseppe II non era il solo a pensarla così, trovandosi molti strenui difensori di questa dottrina tra lo stesso clero e la folla dei teologi del tempo. Ma, ovviamente, il suo potere imperiale gli conferiva la possibiltà di tasferire nei fatti quello che per gli altri erano soltanto teorie.
Il seme gettato da queste teorie e disposizioni legislative settecentesche era destinato a svilupparsi nei secoli successivi. Per molto tempo esso fu contrastato all`interno della Chiesa dal rinnovamento spirituale e teologico che seguì i tragici avvenimenti della rivoluzione francese e che accompagnò l`apparire del nuovo movimento romantico. Ma un segreto logoramento era al lavoro nella stessa Chiesa, dovuto all`inevitabile confronto con la cultura secolare moderna e alla difficoltà crescente di trovare, rispetto alle sue provocazioni, risposte adeguate. Finché la teologia e la cultura cattolica rimasero come custodite da una tradizione compatta e organizzata, sembrò che il logoramento restasse marginale, ma appena, negli anni 60 del Novecento, la compattezza di quella tradizione venne meno, la fortissima pressione che già da tempo la cultura secolare esercitava contro la tradizionale vita claustrale penetrò in modo esplosivo nel mondo ecclesiastico e monastico portandovi confusione e desolazione.

3. Cosa ci stanno a fare i monaci e le monache di clausura? Perché non escono per fare opere sociali? E, visto che secondo una mentaltà e una teologia allora prevalenti, il vero spirito cristiano doveva portare alla rivoluzione sociale per eliminare con la violenza ogni ingiustizia e disuguaglianza, rinchiudersi nel monastero era il colmo dell`egoismo e dell`alienazione.
Si verificarono allora clamorosi fenomeni di abbandono della vita monastica, da parte di molti che scelsero di rivolgersi all`attività rivoluzionaria e politica e, nello stesso tempo, vi fu il prolificare di una letteratura che ripudiava come inutili e dannose le tradizioni ascetiche della vita claustrale ed esaltava indiscriminatamente la sola azione sociale, politica o rivoluzionaria.
Con il passare dei decenni e le disillusioni sulla promessa palingenesi sociale, l`impegno politico e rivoluzionario si è molto attenuato, ma la crisi identitaria di un monachesimo considerato socialmente inutile e la sfiducia nell`ascesi tradizionale sono rimaste ed hanno ancora vasta diffusione nel popolo, tra i fedeli, spesso nel clero e tra gli stessi consacrati.

4. In questa situazione è una vera sfida riprendere i fili di una trama sconvolta e ricostruire un tessuto che sembra definitivamente logorato. Tuttavia l`impresa è necessaria e le difficoltà non devono scoraggiare. Non basta, infatti, per la salvezza e l`incremento delle istituzioni monastiche che ancora resistono presentare ai religiosi e alle nuove vocazioni, del resto molto scarse in questo clima spirituale, le sole esigenze di una tradizione, per quanto venerabile, se non la si giustifica nella sua fecondità ecclesiale e sociale di fronte alle furenti accuse di sterilità che una contro-tradizione plurisecolare le oppone. Solo il superamento di una crisi di identità che ancora appare irrisolta potrà restituire alla loro dignità le venerabili tradizioni lasciate da San Benedetto, dai suoi predecessori e dai suoi successori nell`ascesi monastica.

5. Forse per impostare correttamente il discorso conviene risalire ad una delle fonti più antiche e autorevoli del monachesimo prebenedettino: San Pacomio.
Pacomio era un giovane egiziano pagano del IV secolo che, come tutti i suoi coetanei egiziani, odiava il duro servizio militare imposto dal dominatore straniero romano. Costretto alla coscrizione militare, si trovò un giorno in una città in cui un gruppo di persone particolari si dedicavano ad assistere i giovani coscritti fornendo loro cibo ed ogni genere di sollievo e di conforto amichevole. Pacomio rimase stupito e chiese: chi sono questi? Sono i cristiani, gli risposero. Pacomio incominciò ad incuriosirsi di queste persone così speciali e della loro fede, e infine fece questo giuramemto: se il Dio dei cristiani mi libera dal giogo odioso della vita militare, prometto che diventerò un suo fedele servitore! Poco tempo dopo, in seguito a circostanze del tutto impreviste, effettuvamente Pacomio fu congedato dalla milizia. Il giovane mantenne la sua promessa e si fece cristiano.
A questo punto secondo la mentalità di oggi ci aspettetemmo che egli si dovesse associare a quel gruppo di cristiani che si dedicavano ad assistere i giovani coscritti e ad altre opere buone. Ma invece non fu così.
Notiamo che Pacomio non disse: voglio salvarmi l`anima e quindi me ne vado nel deserto. Al contrario, la sua intenzione era di fare qualche cosa di molto utile per il suo prossimo. E cosa fece? Si mise sotto la disciplina monastica di un vecchio e severo asceta nel deserto d`Egitto.

6. Come si spiega questa scelta? La vita cristiana non si limita al soccorso dei bisognosi, ma comprende tante altre cose, quali la mitezza, la purezza, la pace, la rinuncia all`avidità dei beni terreni, la preghiera e l`ascolto della Parola di Dio etc. Ora Pacomio vide che i cristiani che vivevano nella società erano fortemente combattuti dalle passioni umane più comuni, quali la sete di godere, di possedere e di potere. Cosa fare, dunque? Gli eremiti del deserto si erano allontanati dall`ambiente corrotto della società per poter liberamente dedicarsi alla preghiera, alla meditazione della parola di Dio e alla purificazione del cuore dalle passioni malvage. Pacomio, dunque, decise di mettersi alla scuola di uno di loro per imparare a vivere una vita cristiana integrale, libera dagli impedimenti sempre presenti nella società degli uomini.
Ma, una volta esercitato nelle virtù cristiane, volle mettere in pratica il suo programma di aiutare gli uomini. A parte gli eremiti, nessuno vive da solo, e se il fedele sincero si trova a vivere in una famiglia o in un ambiente in cui dominano le passioni umane, egli sarà fortemente impedito nella sua vita cristiana. Gli eremiti danno il buon esempio, ma non sarebbe ancora meglio se si creasse una società distaccata dalla società secolare in cui vigessero per tutti le norme di comportamento insegnate dal Vangelo? Quello che Pacomio aveva imparato dall`eremita poteva diventare il lievito di una comunità di persone che cercassero insieme di vivere nella preghiera, nell`ascolto della Parola di Dio, nella purezza, nella carità e nella pace. Così Pacomio avrebbe offerto a tanti suoi fratelli il modo per sottrarsi alle insidie del mondo o per convertirsi, cambiare vita, lasciare alle spalle un triste passato e rinascere in una comunità animata dallo Spirito di Cristo.
Creare una comunità così non era una cosa facile, data la forza delle passioni umane. Infatti il primo gruppo dei suoi discepoli dopo un po’ gli voltò le spalle e se ne andò insultandolo. Pacomio non si dette per vinto e raccolse altri discepoli, con i quali infine riuscì a costituire una grande fraternità, nella quale si pregava insieme, ci si serviva a vicenda, si lavorava in pace anche per poter dare ai poveri il frutto del proprio lavoro, si ospitavano uomini e addirittura anche donne – cosa inaudita a quel tempo – in cerca della pace di Dio.

7. Tra Pacomio e Benedetto ci sono quasi due secoli, nei quali il monachesimo si espande, formando varie tradizioni ascetiche e liturgiche. Si avvertono, però, anche segni di decadenza e la necessità di raccogliere in una regola ben definita le tradizioni dei monaci dell`età precedente.
L`esperienza di Benedetto è molto diversa da quella di Pacomio. Egli da giovane va a studiare a Roma e vede che gli studenti, come troppo spesso accade anche oggi, vivono una vita viziosa. Quella scuola, dunque, è sbagliata! Non fa il bene dei giovani, ma li lascia precipitare nell`inferno. Benedetto fugge da Roma e dal mondo corrotto per dedicarsi soltanto a Dio nella vita monastica. Più tardi radunerà gruppi di discepoli e, ammaestrato dall`esperienza, scriverà una regola, nella quale, raccogliendo l`eredità degli antichi monaci, delineerà in modo esemplare per le generazioni future le linee guida per quanti vogliono vivere insieme una vita cristiana.
Pacomio aveva voluto correggere, nella sua fraternità, i difetti della società secolare. Benedetto, oltre a ereditare questo progetto, vuole correggere anche i difetti della scuola del mondo, dalla quale è fuggito. Egli infatti afferma, all`inizio della regola, che intende costituire un scuola: la scuola del servizio divino. Abbiamo, dunque, una società alternativa e una scuola alternativa!

8. Attraverso i secoli i monasteri benedettini hanno sviluppato le linee guida poste da San Benedetto per una vita cristiana comunitaria, ma per certi aspetti hanno anche in parte deviato dal suo insegnamento. Parliamo prima degli sviluppi.
Per quanto riguarda la preghiera, nei monasteri si sono enormemente sviluppate tutte le forme che servono ad esprimere e ad arricchire la preghiera liturgica – non parliamo ora degli sviluppi anche della devozione personale. La liturgia si è arricchita di costruzioni architettoniche, di immagini e decorazioni, di riti e di abiti espressivi, di mirabili composizioni poetiche e musicali, di libri corali miniati e di preziosi vasi sacri e arredi artistici. Tutto questo non ad esclusivo beneficio delle cominità monastiche, ma anche per nutrire la vita spirituale dei popoli. Per un popolo in gran parte analfabeta, tutti questi mezzi erano, come si diceva, la “Biblia pauperum”.
Nel campo del lavoro organizzato i monaci hanno fatto grandi realizzazioni, sia per fini pratici, come l`agricoltura e l’industria, sia nel campo della carità, come l`accoglienza dei pellegrini e le mense dei poveri, sia per la cultura, come la copiatura dei manoscritti e la conservazione dei libri nelle biblioteche.
Non ci dilunghiamo, ora, su questo aspetto e passiamo a considerare quelle che potremmo chiamare “deviazioni”.
Una prima cosa che si può segnalare è la restrizione, dopo il medio evo e ancor più in tempi recenti, delle attività caritative e di accoglienza. Risulta che nei monasteri femminili il capitolo della regola sull`accoglienza degli ospiti era soppresso. Ciò fu dovuto, credo, alla definizione, a mio giudizio abbastanza artificiosa, della vita claustrale come “vita contemplativa”, opposta alla “vita attiva”, e quindi alla restrizione della sua efficacia sociale al solo piano della preghiera di intercessione – aspetto certamente importante, che però è stato forse presentato in modo troppo esclusivo.
A questa definizione troppo rigida di “vita contemplativa” deve essere aggiunta la divisione, nelle comunità maschili, tra monaci sacerdoti e fratelli e nelle comunità femminili tra coriste e servienti. In questa prospettiva, che non trova alcun riscontro nella regola di San Benedetto, la vita contemplativa artificiosamente veniva riservata ai sacerdoti e alle coriste, assumendo così un aspetto intellettualistico fuorviante, mentre fratelli e servienti venivano considerari di seconda categoria, perché destinati ai lavori “materiali”, e quindi non “contemplativi”. Tutte questi caratteri, che tradiscono gravemente la lettera e lo spirito della regola di San Benedetto, hanno convissuto per secoli con elementi di vera santità nei monasteri benedettini, finendo però per offuscare questi ultimi e creando pregiudizi esiziali per valutare l`incomparabile funzione sociale della vita monastica, che i veri riformatori si sono sforzati di riscoprire e che è ormai urgente rimettere in piena luce.

9. Partiamo da quanto abbiamo detto all`inizio: la vita cristiana non si limita all`assistenza dei bisognosi, sopratutto se questa assistenza si restringe alle sole emergenze materiali più estreme. Che sia essenziale fare del bene al prossimo bisognoso è verità sacrosanta, ma che il bisogno del prossimo di cui occorre occuparsi si identifichi senza residui con determinate forme di assistenza, è un`idea del tutto arbitraria. Il detto evangelico “non di solo pane vive l`uomo” ha una valenza anche pratica fortissima. Infatti tutti i bisognosi vanno accompagnati da una vita menomata ad una vita sana ed integra, e quest`ultima comprende assai più del nutrimento fisico e delle cure mediche. Dalla miseria, dal vizio, dalla malattia occorre ricondurre il bisognoso verso una vita che sia in grado di nutrirsi, di agire virtuosamente, di conservare la sanità. Le virtù evangeliche non servono soltanto a nutrire di pane, ma anche a trasmettersi al prossimo per rendere cristianamente beata la sua vita.
Ritorniamo ora ad un principio basilare, che abbiamo trovato in San Pacomio prima che in San Benedetto: nessuno vive da solo e una vita veramente virtuosa non può essere vissuta se non in un una comunità di persone che accettino di seguire insieme le linee guida di una vita santa. Dunque per avviare quanti hanno una vita menomata ad una vita integra è necessario non solo sanarli individualmente, ma anche comunitariamente. Bisogna, cioè, metterli in grado di costruire insieme ad altri una famiglia o una comunità regolata da buoni e santi costumi. Aggiungiamo che la prevenzione vale più della cura e che, perciò, è vera carità non solo ricondurre i menomati ad una vita integra, ma anche creare le condizioni perché la vita integra non diventi menomata, ma si conservi, si sviluppi e si trasmetta.

10. E qui torniamo a San Pacomio e a San Benedetto. Essi hanno visto nel mondo degli adulti e dei giovani modi di vita comune che soffocavano il buon seme del Vangelo a causa del prevalere della sete di godere, di possedere e di potere e hanno voluto creare forme di vita comune in cui quelle tre passioni umane fossero sanate fin dalla radice attraverso la rinuncia totale della vita di perfetta consacrazione a Dio. Per questo le comunità monastiche da loro create sono separate dalla comune vita sociale e a prima vista sembrano interessate soltanto alla salvezza dei loro membri, e quindi sterili per la società. Ma non è così.
Sebbene Pacomio e Benedetto appaiano concentrati sulla sola organizzazione della vita monastica, in realtà essi offrono un modello alternativo di vita associata, di vita familiare e di scuola che ha un valore universale. Se, infatti, i difetti che essi hanno voluto correggere sono reali, è chiaro che l`alternativa da loro proposta vale per tutti. E la circostanza che essi l`abbiano realizzata nell`ambito di una vita di totale consacrazione indica soltanto il fatto innegabile che le passioni combattute dai voti religiosi di castità, povertà e obbedienza sono la vera radice distruttiva della buona vita individuale e sociale e il veleno che soffoca il buon seme del Vangelo. Per questo esse vanno combattute anche fuori dell`ambito della vita monastica. Il fatto che probabilmente i due santi non fossero pienamente coscienti dell`immensa rilevanza sociale delle loro fondazioni non ha importanza, perché vi è una forza rigorosa iscritta nelle cose, che porta con sé le sue conseguenze, anche se noi non ne siamo consapevoli.

11. Questo ci fa comprendere l`insostituibile funzione apostolica e sociale dei monasteri – insostituibile perché nessun`altra realtà ecclesiale o civile può svolgere il ruolo che essi svolgono e che sembra spetti al nostro travagliato tempo mettere in piena luce. Nella vita monastica, grazie ai voti religiosi e alla sua forma comunitaria, il seme evangelico piantato dalla predicazione apostolica e dai sacramenti della Chiesa porta il frutto di una vita comune plasmata secondo il modello divino che vediamo delineato già negli Atti degli Apostoli e nelle lettere di San Paolo. Questo modello, per sua natura e indipendentemente dalle intenzioni dei fondatori della vita monastica, è destinato a divenire guida di condotta e scuola di vita – alternative rispetto ai modelli di vita e alla scuola del mondo – per ogni comunità umana, e in modo eminente per le famiglie e per le parrocchie. Questa funzione apostolica e sociale sempre più appare non come un`appendice contingente, ma come un carattere essenziale e inalienabile della vita monastica. Ciò significa che quanto la comunità monastica realizza nella vita di tutti i giorni deve riverberarsi, adattandosi alle diverse situazioni, nella vita delle famiglie e delle parrocchie.
In anni recenti è successo spesso che monasteri di vita claustrale hanno accolto gruppi di preghiera per guidarli nella “vita spirituale”. Sebbene questa iniziativa sia lodevole, c`è il pericolo che in essa si insinui la tradizionale divisione artificiosa tra vita attiva e vita contemplativa, con l`indebita intellettualizzazione di quest`ultima. Ciò che il monastero deve trasmettere, come modello e come scuola del servizio divino, non è principalmente un`esperienza mistica, per quanto quest`ultima possa essere preziosa, bensì lo stesso modello dalla vita quotidiana divinizzata della comunità monastica. Questa vita divinizzata in nessun modo si restringe al suo aspetto mistico, e tanto meno intellettualistico. Al contrario, San Benedetto dice chiaramente che con i lavori domestici più umili si esercita la vera carità e si guadagnano maggiori meriti davanti a Dio, e che perciò tutti devono esercitarli a turno – altro che divisione tra coristi e servienti! Lungi dall`essere una vita essenzialmente “contemplativa”, la vita monastica è una vita familiare comunitaria bene organizzata, nella quale ogni cosa deve essere fatta nel tempo e nel modo dovuto, «perché nessuno si turbi e si rattristi nella casa di Dio».
È certamente evidente che i tempi della preghiera liturgica occupano un posto privilegiato nella giornata monastica – e ciò spiega come attraverso i secoli i monaci abbiano tanto arricchito la liturgia della Chiesa – ma l`ispirazione divina attinta nella celebrazione della preghiera liturgica deve poi irradiarsi in tutta l`attività giornaliera della comunità, impegnando i monaci sia in tutto ciò che serve per una più sentita liturgia, a beneficio della comunità e di tutto il popolo di Dio, sia nel servizio fraterno e in tutto ciò che serve perché ogni cosa si compia nel modo e nel tempo dovuto e nessuno si turbi e si rattristi nella casa di Dio.
Ora, come la liturgia, così anche la sapiente regolamentazione della vita secondo il modello divino della regola deve essere a beneficio di tutto il popolo di Dio. La vita quotidiana comune, plasmata dalla divina liturgia e convogliata nelle pieghe soavissime della regola, deve essere realizzata con il piu` grande amore dalla comunità per divenire poi la città sul monte che dà luce a tutta la casa.

12. Questa presa di coscienza dell`incomparabile funzione apostolica e sociale della vita monastica, riservata ai nostri tempi e sollecitata dalle stesse critiche più ostili contro la vita claustrale, deve risolversi in un grande risveglio e in un fattivo e fervido rinnovamento dei monasteri. Se la nostra vita, così come ci è stata trasmessa da San Benedetto e dai nostri padri, è un vero modello insostituibile per tutto il popolo di Dio, per le parrocchie, per le famiglie, per gli stessi indigenti che aspirano ad una vita migliore, quale dovrà essere il nostro rinnovato fervore nell`adempiere anche i più umili servizi perché tutto si compia nel suo giusto tempo e modo e nessuno si turbi e di rattristi nella casa di Dio!
Come si è detto, infatti, la casa e la famiglia di Dio, illuminate e pacificate dalla divina liturgia e dal fervore operoso dell`umile servizio fraterno che da essa scaturisce, sono destinate a diventare città sul monte e scuola del servizio divino per tutte le famiglie umane. Per questo l`ospitalità, tanto raccomandata da San Benedetto, deve essere ampiamente e sapientemente esercitata, non principalmente per corsi di spiritualità, ma come scuola di vita, che, seguendo l`insegnamento della regola, accompagni le famiglie a saper plasmare la loro vita comune di tutti i giorni secondo il modello divino, cosicché anche nella realtà quotidiana delle famiglie e delle parrocchie ogni cosa sia fatta nel tempo e nel modo dovuto e nessuno si turbi e si rattristi.

13. Quale immenso lavoro hanno fatto i monasteri attraverso i secoli per arricchire la liturgia con tutte le arti, per adornare le dimore, per ingentilire i comportamenti e il linguaggio quotidiano, per preservare dalla barbarie imperante tutti i tesori di vera umanità espressi nella letteratura e nelle arti? Tutto questo non dovrebbe essere di nuovo realizzato in tempi di sempre più diffuso imbarbarimento dei costumi, del linguaggio, della cultura, nella stessa vita quotidiana delle famiglie? E quanto le comunità monastiche riusciranno a preservare o a ricreare, non dovrebbe poi essere messo a disposizione delle famiglie e delle parrocchie attraverso l`ospitalità sapientemente organizzata e il saggio uso delle nuove possibiltà offerte dai più recenti strumenti? Lo stesso istituto degli oblati non dovrebbe rinnovarsi per divenire un tramite prezioso per la diffusione della vita comune rinnovata in tutto il popolo di Dio?
Ma la grande missione apostolica alla quale questi nostri inquieti tempi chiamano le comunità benedettine e claustrali non potrebbe realmente realizzarsi se le comunità stesse non accogliessero l`appello dello Spirito Santo a rinnovarsi e a plasmare con un fervore nuovo, secondo il modello divino delineato da San Benedetto e realizzato dai nostri santi padri, la vita comunitaria quotidiana, nella fervorosa celebrazione liturgica e nell`umile servizio fraterno.