L’incantesimo del Venerdì Santo

romanzo di Don Massimo Lapponi
ultimato il 2 gennaio 2014

Progetti per le vacanze di Pasqua

«Cara Margaret,
«non vedo l’ora di riabbracciarti! Sono così contenta che tu e Charles veniate in Italia per il campeggio della Settimana Santa e per Pasqua! Mi ha stupito un po’ – ma veramente non tanto – che Charles abbia chiesto di venire anche lui e che si sia accordato con Don Franco per parlare con lui durante l’accantonamento. Certamente Don Franco è la persona più adatta per fargli conoscere meglio il cattolicesimo, e, visto che si sente attratto dalla Chiesa Cattolica, la sua richiesta sembra più che ragionevole. Soltanto mi domando se si sente attratto dalla Chiesa Cattolica o piuttosto da qualche cattolica! Naturalmente una cosa non esclude l’altra. Ma credo che, tra le catechesi di Don Franco, si interesserà soprattutto di quella che riguarda i sacramenti – uno in modo speciale!
«Ma lasciamoli perdere quei due, e pensiamo alle cose serie!
«Ti avevo detto che al campeggio verrà anche Giulia. Ora devo aggiungere che ci sarà anche la sua compagna di scuola Francesca, la cugina di Caterina. Giulia ha tenuto molto a farla venire e ha anche faticato un po’ a convincerla.
«Il fatto è che Francesca, anche se si è convinta che quella setta era tutta un imbroglio e non ne ha più voluto sapere, sembra che non si sia ancora ripresa dalla crisi di depressione che ha avuto dopo quella famosa festa. A scuola ha fatto molte assenze e sembra ormai certo che perderà l’anno. La madre è molto preoccupata: mangia pochissimo, dorme male, ha gli incubi e spesso durante il giorno piange, o rimane imbambolata e assente. La madre l’ha fatta visitare da diversi specialisti, ma per ora non si vede alcun miglioramento.
«Io penso che, più che di medici, abbia bisogno di un buon confessore, o magari di un esorcista. Ma la sua famiglia non è molto religiosa e non credo che sia facile convincerla a parlare con un sacerdote. Ne ho parlato con Giulia, la quale ora, come sai, segue molto quello che le dico – infatti quando l’ho invitata al campeggio ha accettato subito con entusiasmo. E’ stata lei che ha suggerito di invitare anche Francesca.
«Come ti dicevo, non è stato facile convincerla. Ancora aveva nella testa la strofetta: “gli scout sono bambini vestiti da cretini, guidati da cretini vestiti da bambini”, che da molto tempo gira tra i giovani scanzonati. In più la famiglia è poco religiosa e l’idea di stare tre giorni con gli scout cattolici non le arrideva proprio. Ciò che alla fine l’ha convinta è stata la sua amicizia con Giulia. Infatti sono molto legate e il contatto giornaliero con Giulia è l’unica cosa che, in questo momento, le dà un po’ di conforto. Per questo il pensiero di stare tre giorni senza vederla le è sembrato così orribile che ha deciso di venire anche lei.
«Prevedo che non sarà facile riuscire a farla guarire dal suo stato di depressione, ma dobbiamo mettercela tutta. Sarà un altro impegno per noi, per tenere fede al nostro giuramento.
«Per quanto riguarda l’accantonamento, ti confermo che andremo in Toscana, in provincia di Arezzo, in un posto che si chiama Acquafredda, presso un monastero di Benedettine. Don Franco mi ha detto che lì originariamente c’era un antico convento di Clarisse, abbandonato da molto tempo. Qualche anno fa una ragazza di Torino, in seguito ad una grave crisi spirituale, ha deciso di farsi monaca e, dopo molte difficoltà, ha rilevato il convento e vi ha fondato un monastero di Benedettine. Ora sono una decina, quasi tutte giovani, e hanno una grande attività, non solo di preghiera, ma anche di accoglienza, di opere di carità e di altre cose. Don Franco le conosce bene perché le ha seguite e le ha aiutate fin dall’inizio. Ha detto che sarà una bellissima esperienza per noi questo campeggio, soprattutto perché avremo occasione di conoscere in monastero di Acquafredda e tutto quello che fanno le monache.
«Ma quello che mi hai accennato di Edith nell’ultimo messaggio mi interessa molto. Veramente quando l’ho conosciuta a Natale ho avuto subito un’ottima impressione di lei. Non mi stupisce perciò sapere che si sta impegnando seriamente in qualche cosa di buono. Ma raccontami meglio. Non ho capito che cosa c’entrano Dorothy e la Signora Baker.
«A proprosito, se le senti, salutamele tantissimo. Non sai quanto sono felice che John abbia trovato una ragazza eccezionale come Dorothy! Ma veramente lo ha meritato! Se penso alla situazione da cui veniva fuori e quanto ha sofferto!
«Fammi anche sapere con precisione quando arrivate, così ci organizziamo per venirvi a prendere all’aeroporto.
«Oh, Margaret! Sono così felice! Se penso che tra poco ci rivedremo e che passeremo tanti giorni insieme! I due campeggi a cui ho partecipato insieme a te sono stati i momenti più belli della mia vita! E ora ce ne sarà un altro! Non mi sembra vero!
«A presto! E non dimenticare di raccontarmi per bene la storia di Edith.
Sinceramente
tua Vittoria».

«Cara Vittoria,
«sei sempre la solita malignetta! Quasi quasi ti ripudio come amica! Ma poi come farei senza di te? Mi tocca sopportarti!
«Io sono felicissima di Charles e di Emma! Mi metterei a saltare dalla gioia! Tua sorella è semplicemente straordinaria e l’unica cosa che temo è che Charles potrebbe deluderla. Questi fratelli sono sempre un po’ petulanti e ogni tanto qualche bastonata non farebbe loro male! Ma Emma è così brava che certamente lo raddrizzerà per bene – e mi sembra proprio che Charles non desideri altro che essere raddrizzato da lei!
«E ci pensi che diventeremo parenti! Chi l’avrebbe mai detto! Ci sarebbe quasi da scandalizzarsi, se i tuoi genitori non mi avessero ripetuto mille volte che quello che io ho fatto per te compensa abbondantemente il male fatto alla vostra famiglia dalla mia bisnonna.
«Ma insomma, non pensiamo ora a cose tristi quando abbiamo di fronte a noi giorni così felici! Anch’io non vedo l’ora di riabbracciarti e il pensiero che tra pochi giorni passeremo insieme un altro campo scout mi manda semplicemente in estasi. La storia del monastero di Acquafredda mi interessa moltissimo e non dubito che, grazie al contatto con le Benedettine, il nostro campeggio sarà eccezionale.
«Ma ora devo raccontarti di Edith.
«Dopo il matrimonio di Dorothy, Edith è tornata a Hastings con i genitori, ma non si è fermata lì a lungo. Dato che ormai ha un diploma di assistente sociale, ha deciso di andare a lavorare a Londra. Lì le è capitata l’opportunità di inserirsi in una struttura di assistenza interessata soprattutto ai giovani che frequentano locali notturni e discoteche. Già in questi pochi mesi ha fatto una discreta esperienza e le è venuto in mente un progetto, che, come ti accennavo, dovrebbe coinvolgere anche Dorothy e la Signora Baker – ma anche i genitori di Edith.
«Edith infatti ha avuto occasione di accostare diversi giovani e ragazze, tra i quali ve ne sono molti che a fine nottata sono completamente distrutti. Parlando con loro, ha potuto toccare con mano il bisogno immenso che hanno non solo di una parola amica e di un soccorso e di un ascolto che venga veramente dal cuore, ma anche di un ambiente in cui poter trascorrere un po’ di tempo nella pace, per riflettere e per capire meglio se stessi. Le è allora venuta l’idea di chedere a Oak Farm se è possibile ospitare lì qualcuno di questi ragazzi e regazze, a prezzi accessibili a tutti, per periodi più o meno lunghi. A Oak Farm, infatti, come è succersso a Dorothy, potrebbero trovare l’ambiente adatto, e anche l’aiuto umano adeguato, per uscire da situazioni psicologiche disastrose.
«Come puoi immaginare, Dorothy, d’accordo con la Signora Baker, si è messa subito a disposizione. Hanno dunque deciso di attrezzare una parte della casa padronale per poter ospitare volta per volta due regazze o due ragazzi – naturalmente, date le regole che la Signora Baker aveva posto fin dall’inizio, non una coppia ragazzo-ragazza – a prezzi bassissimi, per periodi da stabilire. Dorothy si incaricherà di seguirli, anche con l’aiuto di John, per aiutarli nelle loro difficoltà umane e psicologiche.
«A loro volta, i genitori di Edith, quando hanno saputo della cosa, si sono subito entusiasmati e stanno progettando di creare a Londra una casa di accoglienza – che chiameranno “Erika Guest House” – per poter accogliere e assistere i giovani e le ragazze che la vita notturna della capitale riduce alla disperazione.
«Come vedi sono tutte belle iniziative, che certamente porteranno il loro frutto. Come dici tu, è una goccia nel mare, ma il mare è fatto di gocce!
«Intanto prepariamoci a trascorrere insieme una Pasqua indimenticabile. Appena potrò, ti farò sapere l’orario esatto del nostro arrivo, che dovrebbe essere martedì della Settimana Santa.
«Trasmetti i miei saluti più cari a Emma e a tutta la tua famiglia.
A prestissimo!
Sinceramente
tua Margaret».

Preparativi per il campeggio

Arrivati in Italia nella tarda mattinata di martedì della Settimana Santa, Margaret e Charles furono accolti con grandissima gioia e cordialità dalla famiglia Castelli. Charles fu sistemato nella stanza degli ospiti e per Margaret fu predisposto un letto nella stanza di Vittoria.
Per le due ragazze incominciò un periodo intensissimo, pieno di attività e di entusiasmo. Oltre alle mille cose da dirsi in tutto il tempo che avevano a disposizione per stare insieme, dovettero subito occuparsi, insieme ad Emma, dei preparativi per il campo scout, che sarebbe incominciato il giorno seguente.
Nel primo pomeriggio vi furono molte telefonate con Don Franco, con gli altri scout e con Giulia per gli ultimi accordi. Poi le ragazze si occuparono di completare la preparazione dei materiali da portare, e ne venne fuori una tale confusione che Silvia, la madre di Vittoria ed Emma, la quale cercava di aiutarle, a un certo punto perdette l’orientamento.
Charles, vedendo Emma impegnatissima nella preparazione dei bagagli e rendendosi conto di non potersi rendere utile, preferì ritirarsi in camera sua per non essere di incomodo.
In serata si presentò anche Giulia, desiderosa di intrattenersi un po’ con Vittoria. Fu presentata a Margaret e tutte e tre, lasciando ad Emma e a Silvia l’incombenza di completare la preparazione degli zaini per il campo, si ritirarono in salotto per parlare un po’ tra di loro.
“Non sai quanto sono felice di questo campeggio!” disse Gulia dopo essersi accomodata su una poltrona.
“E come sta Francesca?” le domandò Vittoria.
“Insomma! Sono sempre molto preoccupata per lei. In questi ultimi giorni mi si è proprio appiccicata. Sembra che l’imminenza del campo le stia creando una grande ansietà”.
“E la mamma cosa dice?”
“La Signora Marisa è contentissima che Francesca si sia decisa a venire al campeggio e la incoraggia a prendere la cosa con entusiasmo. Devo dire che Francesca ora sembra anche lei contenta di venire, ma facilmente ricade nei suoi stati di depressione. Ieri mi ha telefonato in piena notte dicendo che aveva gli incubi”.
“Ma si può sapere la sera di quella famosa festa che cosa le è successo che l’ha traumatizzata?”
“Su questo punto Francesca è molto restia a parlare. Per quanto siamo amiche e per quanto sia tanto legata a me – in questi giorni poi non ti dico! – vi sono argomenti sui quali è molto riservata. Forse pensa ancora che deve tenere fede alla promessa di non dire niente delle cose che le hanno comunicato in segreto quella sera. Avoglia a dirle che le promesse fatte a quei delinquenti non valgono niente! Mi sembra che su questo sia quasi superstiziosa e che tema che tradire il segreto porti male”.
“E’ incredibile che nel ventunesimo secolo…”
“Oh!” intervenne Margaret. “Mi sa che oggi la gente è più superstiziosa che nel medioevo. Mio nonno mi ha raccontato che già al suo tempo a Oxford era di gran moda l’occultismo e la setta di Rudolf Steiner faceva furore. E oggi mi sa che è ancora peggio!”
“Ci puoi scommettere!” disse Vittoria. “Ma senti un po’, Giulia: che cosa possiamo fare per Francesca? Possibile che una ragazza come lei si debba rovinare così? Già perdere l’anno è una bella disgrazia! Se poi ci aggiungiamo la depressione e tutto il resto, non so dove andiamo a finire!”
“Che ti devo dire?!” rispose Giulia. “Anch’io vorrei aiutarla, e sto cercando di fare il possibile. Ad ogni modo, già il fatto che abbia accettato di venire al campo scout è qualche cosa. Vediamo se con le varie attività in programma e la novità della vita all’aperto e del monastero si riesce a distrarla un po’ dalle sue fissazioni”.
“A proposito di fissazioni: anche se non vuole parlare delle comunicazioni segrete che ha ricevuto quella sera, non ti ha detto niente dei pensieri che la ossessionano o degli incubi che non la fanno dormire?”
“Qualche cosa mi ha detto e qualche cosa ho cercato di indovinare. Ma essendo faccende molto personali, preferirei non dire niente. Quello che, secondo me, le farebbe bene è che si decidesse a parlare a cuore aperto con Don Franco”.
“Lo credo anch’io” disse Margaret. “E’ un bravo sacerdote e ama molto i giovani. Ma credo che Francesca lo conosca troppo poco per confidarsi con lui. O sbaglio?”
“Anzi, non lo ha mai incontrato ancora!” rispose Giulia. “E questo è una grossa difficoltà. L’altra è che la sua famiglia è poco religiosa e non ha molta fiducia nei sacerdoti:.
“Facciamo una cosa!” disse Vittoria. “Cerchiamo di incoraggiarla, direttamente o indirettamente, a fare amicizia con Don Franco. Lui è già informato del suo caso, e ad ogni modo possiamo parlargliene ancora. A lei possiamo far vedere come ci troviamo bene con lui e quanto lo stimiano, soprattutto perché è amico dei giovani, conosce i loro problemi e sa come aiutarli”.
“Ehi, ragazze!” intervenne a questo punto Emma affacciandosi dalla porta del salotto. “Se venite a darmi una mano non fate un soldo di danno! E poi preparatevi perché è quasi ora di cena. Giulia, vuoi restare a cena con noi?”
“No, grazie!” rispose Giulia alzandosi. “E’ meglio che vada subito a casa. Certamente mio padre desidera stare un po’ con me prima che parta per il campeggio. E poi devo stare appresso a Francesca per accordarci sulle ultime cose. Anzi, penso che la inviterò a dormire a casa mia. Così spero che non abbia incubi, e domani mattina saremo subito pronte per la partenza”.
“Sì, sì!” disse Vittoria, mentre tutte e tre le ragazze si avviavano verso l’atrio dell’abitazione. “Invitala! E mi raccomando: domani mattina alle otto davanti alla stazione Termini!”
Dopo che Giulia si fu allontanata, Vittoria e Margaret aiutarono per un po’ Emma a predisporre le ultime cose per il campeggio e poco dopo Silvia chiamò tutti a tavola per la cena.
Nel frattempo erano rientrati anche Alessandro, il padre di Vittoria ed Emma, e il loro fratello Stefano.
Tutti si misero a tavola e Charles prese posto accanto ad Emma.
“Allora, Charles” disse Alessandro in tono allegro, “come va l’italiano?”
“Abbastanza bene” rispose il giovane sorridendo. “E sono felicissimo di essere qui con voi”.
“Soprattutto con Emma!” pensò Vittoria facendo un sorriso malizioso e dando una gomitata di intesa a Margaret. Margaret restituì la gomitata e le lanciò un’occhiata di rimprovero.
Poi disse:
“Dottor Castelli: mio fratello ed io siamo veramente molto contenti di essere vostri ospiti e ci scusiamo per aver trascurato, fino ad ora, di trasmettervi i saluti e i ringraziamenti più cari da parte dei nostri genitori e di mio nonno”.
“Piuttosto!” intervenne Silvia “Quando si decideranno a venire tutti a trovarci? Non vedo l’ora di riabbracciarli!”
“Mia madre parla spesso di lei” disse Margaret sorridendo a Silvia. “Penso che anche lei desideri molto rincontrarla”.
“Tutto pronto per domani?” intervenne Alessandro.
“Quasi tutto” rispose Emma sorridendo. “Se Vittoria e Margaret mi danno una mano, in poco tempo dopo cena sistemeremo le ultime cose. Spero che Charles abbia con sé tutto il necessario”.
“A questo” rispose Charles “ha provveduto mia madre. Quindi penso che non manchi nulla”.
“Vi racconto una barzelletta” disse Vittroia con aria maliziosa. “A un tale chiedono: come va la scuola dei bambini? Risponde: ah! A questo pensa tutto mia moglie! E hai sistemato quei lavori di casa? Risponde: ah! A questo pensa tutto mia moglie! E cosa fate quest’estate? Risponde: ah! A questo pensa tutto mia moglie! Ma insomma, tu che cosa fai? Risponde: ah! Io mi occupo di problemi internazionali!”
Emma scoppiò in una delle sue risate fragorose, mentre tutti ridevano divertiti, tranne Charles che si guardava intorno sorridendo imbarazzato e mormorando: “Non ho capito!”
“Forse è meglio che non capisci!” gli disse Vittoria con aria canzonatoria.
“Mi sa che ti ripudio veramente!” le mormorò Margaret all’orecchio stringendola per il braccio. Ma il suo sguardo divertito diceva tutto il contrario.

Ad Acquafredda

Il giorno dopo, verso le otto del mattino, tutti gli scout del reparto si ritrovarono, insieme a Don Franco, di fronte alla stazione Termini. Ben presto li raggiunsero anche Emma, Vittoria, Margaret e Charles e poco dopo Giulia e Francesca.
Quest’ultima si teneva stretta a Giulia guardandosi intorno intimidita. Era molto dimagrita negli ultimi tempi e aveva assunto un’aria incerta e timorosa.
Vittoria le si avvicinò e la salutò cordialmente.
“Francesca!” disse. “E’ tanto che non ci vediamo!”
Francesca, avendo saputo il ruolo che aveva svolto Vittoria nella vicenda dell’inverno passato, la guardò imbarazzata cercando di sorridere.
“Ciao, Vittoria!” disse con voce incerta. “Sono contenta di vederti!.. Penso anzi che devo ringraziarti per quello che hai fatto per tutti noi”.
“Oh, per carità, non ne parliamo più! Mi fa molto piacere che ti sei decisa a venire al campeggio. Vedrai che ti divertirai”.
“Lo spero veramente!”
“Oh, guarda, vieni! Ti presento Don Franco”.
Così dicendo la prese per mano e si avvicinò al sacerdote, il quale, vestito da scout, stava parlando con i capi-squadriglia.
“Don Franco!” disse Vittoria. “Lei è Francesca. E’ la prima volta che viene”.
“Ciao, Francesca!” disse il sacerdote con voce amichevole voltandosi verso le due ragazze. “Sono certo che ti troverai bene! Se hai bisogno di qualche cosa non aver paura di chiedere!”
“Grazie padre!” disse Francesca un po’ intimorita.
Don Franco consultò l’orologio e, vedendo che era tempo di muoversi, gridò a voce alta:
“Ragazzi! E’ ora di avviarsi! Dobbiamo andare al nono binario e prendere il treno per Arezzo. I biglietti li ho io. Quindi seguitemi ordinatamente divisi per squadriglie. Emma e gli altri capi vengano con me. Mi raccomando: salite sul treno ordinatamente e date a tutti un buon esempio di civiltà. Non litigate per i posti al finestrino. Tutti pronti? Allora procediamo!”
Il gruppo degli scout entrò in stazione e si avviò verso il marciapiede di partenza dei treni. I passeggeri e gli altri che affollavano la stazione, abituati alla più totale indifferenza, questa volta non mancarono di osservare con simpatia i giovani scout che sfilavano ordinatamente in direzione dei treni.
Gli scout salirono sul treno per Arezzo e si accomodarono ai loro posti vociando animatamente. Occuparono quasi un intero vagone. Poco dopo il treno partì.
Francesca si strinse a Giulia, che le sedeva accanto.
“Sono contenta di essere venuta!” disse sorridendo all’amica. “E’ bello viaggiare sul treno con te vicina in mezzo a tanti ragazzi che parlano allegramente”.
“E’ vero!” esclamò Giulia, ben felice di osservare che Francesca incominciava il viaggio con spirito sereno e ben disposto. “Anche per me è una bella esperienza, che non avevo mai fatto prima”.
“Guarda come è bella la campagna oggi!” disse ancora Francesca fissando lo sguardo fuori dal finestrino. “E’ tanto che non esco dalla città!”
“Veramente! Penso che la vita scout, così spesso a contatto con la natura, sia molto sana per i giovani – e magari anche per gli altri! Se questo campeggio, come credo, andrà bene, chissà che non mi decida a farmi scout anch’io!”
“Se ti fai scout tu, mi ci faccio anch’io!”
“Bene! Intanto vediamo come va questa prima esperienza”.
Per tutta la durata del viaggio gli scout eseguirono diversi canti del loro repertorio, e anche questo contribuì ad allietare e a rasserenare l’animo di Francesca.
Giunti ad Arezzo, tutti i partecipanti al campeggio discesero dal treno e, subito fuori dalla stazione, salirono su un autobus che doveva condurli nei pressi del monastero di Acquafredda. Era un mezzo preso a noleggio e riservato per loro.
Anche il viaggio in autobus, della durata di circa tre quarti d’ora, fu allietato dal canto delle loro squillanti voci giovanili.
Dopo aver attraversato una zona collinosa, l’autobus si inoltrò tra boscosi rilievi montani, fino a raggiungere un piccolo borgo, all’altezza di circa seicento metri, presso il quale sorgeva il monastero di Acquafredda.
L’antico convento delle Clarisse, ora diventato monastero benedettino, era situato su un rilievo in posizione dominante, un po’ discosto dall’abitato. Proseguendo per qualche centinaio di metri oltre il monastero, l’autobus parcheggiò accanto a un vasto prato, attraversato da un ruscello, che digradava a valle verso zone boscose ricche di querce.
Gli scout scesero ammirando la bellezza del paesaggio e subito incominciarono a piantare le tende in una parte del terreno abbastanza pianeggiante non lontana dal ruscello.
Charles si sistemò in una tenda insieme ad altri scout, mentre Giulia e Francesca trovarono posto nella tenda in cui erano Vittoria, Margaret e altre ragazze.
Una volta sistemate le tende, gli scout prepararono da mangiare e verso mezzogiorno e mezzo servirono il pranzo.
Fu un pranzo molto allegro e anche Francesca si divertì.
Dopo aver ripulito e sistemato tutto, gli scout si concessero un’oretta di riposo. Alcuni andarono in giro per esplorare il terreno, altri preferirono ritirarsi a dormire o a conversare nelle tende.
Giulia e Francesca si ritirarono nella loro tenda e si distesero sui loro sacchi a pelo per riposare.
“Allora!” chiese Giulia. “Ti piace?”
“Sì!” rispose Francesca. “Però, mentre fino a poco fa mi ero rasserenata, ora mi ha preso una forte angoscia. Non so che cosa mi succede. Mi sembra di avere come un attacco di panico e quasi quasi vorrei trovarmi a casa mia”.
“Ora non cedere subito alla prima impressione! Cerca sempre di vedere il lato buono delle cose. Pensa che ora potrai fare tante nuove amicizie!”
“Non ho alcun desiderio di fare amicizie! Mi sento tanto angosciata! Mi ritornano i soliti pensieri!”
“Ma Francesca! Ti ho detto tante volte che non devi più pensarci! Anche se quella volta ti hanno convinto ad invocare il demonio, tu lo hai fatto soltanto come uno scherzo! Quindi non devi dargli importanza! E poi, visto che ci troviamo qui, perché non ne parli con Don Franco? Vedi che é un bravo sacerdote e che tutti i ragazzi gli sono affezionati? Si vede che è uno che li capisce!”
“No, non me la sento di parlare con Don Franco!”
“Ma perché?! Se gli racconti quella storia, o altre, puoi stare tranquilla che rimarrà tutto tra voi. E così poi lui potrà consigliarti nel modo migliore! Chi più di lui potrebbe farlo?”
“Ci sono altre ragioni per cui non me la sento di parlare con lui. Temo che a certe cose non ci sia rimedio!”
“Ma perché dici così?! Più o meno le cose che hai fatto tu le ho fatte anch’io, e io non me ne faccio un incubo. Anzi, ora che ci penso credo proprio che in questi giorni andrò a parlarne con Don Franco! Lo stesso puoi fare anche tu!”
“Senti, lasciamo stare! Ora non ho voglia di affrontare questo argomento. Lasciami riposare un po’ e poi credo che starò meglio”.
“Va bene! Come vuoi!”
Si abbandonarono sui loro sacchi a pelo e chiusero gli occhi.
Ma Giulia non riuscì a dormire. I discorsi di Francesca l’avevano agitata. C’era sempre qualche cosa, oltre ciò che l’amica le aveva confidato e quello che poteva capire facendo il confronto con la propria esperienza, che rimaneva nascosto e che Francesca si rifiutava di dirle. Non c’è niente di peggio di qualche fatto negativo o preoccupazione angosciosa che abbiamo dentro e che sentiamo di non poter comunicare a nessuno. Diventa come un tarlo che ci distrugge!
Rimasero in silenzio per un po’. Poi, trascorso il tempo del riposo, si udì il fischietto di Don Franco che richiamava tutti a raccolta nello spazio di fronte alle tende.

Suor Lioba

All’udire il suono del fischietto di Don Franco, quelli che erano andati a riposare uscirono dalle tende e quelli che si erano allontanati tornarono verso il campo.
Dopo un po’ tutti si trovarono riuniti sul prato.
Don Franco fece segno di far silenzio e disse:
“Tra poco andremo a far visita al monastero di Acquafredda. Prima assisteremo ad una breve preghiera nella chiesa e poi saremo ricevuti dall’abbadessa. Non vi spaventate per questo titolo dal suono medievale. L’abbadessa è una donna piuttosto giovane che non molti anni fa era una ragazza come voi. Certamente vi dirà lei stessa qualche cosa della sua esperienza, anche se su alcuni punti penso che vorrà essere molto discreta. E anche voi cercate di essere discreti nelle vostre domande. Non tutto si può dire a tutti. Vi accenno soltanto al fatto che, quando era una ragazza come voi, l’abbadessa – che allora si chiamava Virginia, mentre ora si chiama Suor Lioba – ha fatto delle esperienza molto dolorose. Ma non so se vi parlerà esplicitamente di questo, e voi non fatele domande imbarazzanti. D’accordo?
“Certamente vi parlerà del monastero e della vita della comunità. So che oggi spesso si pensa – e non dubito che anche molti di voi lo pensino – che i monasteri di clausura sono cose di altri tempi e che oggi non si capisce che cosa ci stanno a fare. Ma si tratta di pregiudizi, e Suor Lioba ci darà tutte le spiegazioni necessarie per dissiparli.
“Dunque, ora ci avvieremo ordinatamente verso il monastero e entreremo nella chiesa per assistere alla preghiera delle monache. Non vi preoccupate: sarà una cosa breve!
“Domande?.. Bene! Allora possiamo andare!”
Guidati da Don Franco, da Emma e da altri più grandi, gli scout, divisi per squadriglie, ognuna con la sua insegna, si avviarono lungo il pendio e in pochi minuti raggiunsero il monastero.
Il vetusto edificio era molto suggestivo. Situato in cima al colle, vi si accedeva attraverso un bellissimo giardino, tenuto in perfetto ordine. La chiesa, come le costruzioni monastiche che la circondavano, possedeva il fascino incantevole dell’antichità e dell’arte. L’unica navata, molto spaziosa, accoglieva amorosamente i fedeli con l’abbraccio discreto della sua penombra silenziosa e con il linguaggio muto delle scene evangeliche e francescane dipinte sulle pareti e sulle tele. Ai lati dell’altare due dipinti più recenti, ma bene armonizzati con l’arte originaria della chiesa, presentavano le figure oranti di San Benedetto e di Santa Scolastica – segno della nuova presenza benedettina nell’antica dimore delle Clarisse. Dietro l’altare una grande grata separava dal presbiterio gli stalli lignei artisticamente scolpiti dell’ampio coro monastico.
Impressionati dall’atmosfera del luogo, gli scout entrarono nella chiesa in perfetto silenzio e si sistemarono ordinatamente nei banchi. Poco dopo si udì il suono di un campanello e dietro la grata apparve una schiera di una decina di monache, le quali, con il loro abito sobrio e suggestivo, procedendo ordinatamente, con un inchino rituale all’altare, si sistemarono negli stalli del coro.
Poi una monaca intonò: “Deus, in adiutorium meum intende!” e il coro proseguì la preghiera con il canto dell’inno e la recita “recto tono” dei salmi.
La preghiera durò pochi minuti. Poi le monache, dopo essere rimaste per alcuni istanti inginocchiate in silenzio, uscirono ordinatamente facendo a due a due l’inchino all’altare.
Margaret e suo fratello, che erano seduti l’una accanto all’altra, si guardarono spalancando tanto d’occhi, e Charles mormorò:
“Wonderful!”
Poi Don Franco si alzò e, senza alzare troppo il tono della voce, disse:
“Ora usciamo dalla chiesa e ci avviamo ordinatamente verso la sala conferenze, dove ci riceverà l’abbadessa”.
I ragazzi si alzarono e, mantenendo sempre l’ordine delle squadriglie, uscirono dalla chiesa.
Don Franco li condusse all’ingresso del monastero e suonò il campanello.
Poco dopo rispose dal citofono una voce femminile:
“Deo gratias! Entrate pure e andate a destra. La porta della sala conferenze è aperta”.
Guidati da Don Franco, i ragazzi seguirono le indicazioni della monaca e, varcata la porta a destra del portone d’ingresso, si trovarono in una grande sala piena di sedie disposte in file ordinate con in fondo un tavolo di presidenza. Sulle pareti si vedevano numerosi quadri raffiguranti scene di vita benedettina.
Poco dopo, da una porta laterale in fondo alla sala, entrò l’abbadessa. Era una donna dall’aspetto giovanile e dall’aria sorridente. L’abito monastico dava alla sua figura piacevole un’aura di sacralità che nello stesso tempo attraeva e infondeva rispetto.
“Benvenuti, ragazzi!” disse sorridendo. “Ciao, Don Franco! Prego, ragazzi, accomodatevi!”
“Grazie, madre!” risposero diverse voci. Poi i ragazzi presero posto e Don Franco disse, rivolto all’abbadessa:
“Scusa la nostra invadenza, Suor Lioba! Ma ci tenevo che i ragazzi conoscessero il monastero. Ne avevo parlato loro tante volte!”
“Niente da scusarsi! Siamo felicissime di ospitarvi! San Benedetto dice che al monastero gli ospiti non mancano mai e che bisogna accoglierli come Cristo stesso!”
“Bene!” riprese Don Franco rivolgendosi agli scout. “Questa è Suor Lioba, l’abbadessa del monastero di Acquafredda, di cui vi ho accennato. Ora vorrei che qualcuno di voi facesse qualche domanda a Suor Lioba, in modo che lei possa farvi meglio conoscere la missione di questo monastero. Se qualcuno vuole parlare alzi pure la mano”.
Dopo un attimo di silenzio un ragazzo, che stava in una delle prime file, alzò la mano.
“Prego, Sandro! Chiedi pure!” disse Don Franco.
Il ragazzo si alzò in piedi e, con un po’ di imbarazzo, disse:
“Suor Lioba, è la prima volta che mi trovo in un monastero di Benedettine, e devo dire che la vostra preghiera mi è piaciuta molto, e anche la vostra chiesa. Però mi chiedo: oggi, con tanti gravissimi problemi che ci sono nel mondo – per esempio la fame, la lebbra, la tossicodipendenza e tante altre cose – non sarebbe meglio che le suore, come Madre Teresa di Calcutta, invece di stare in clausura, andassero in giro a fare del bene? La ringrazio e mi scuso per la mia domanda, che forse è poco rispettosa”.
“Non c’è niente da scusarsi!” rispose l’abbadessa sorridendo. “La tua è una domanda che ho già sentito mille volte e che io stessa avrei fatto quando avevo l’età tua – cioè non moltissimo tempo fa. Anzi, mi offri l’occasione per dissipare molti equivoci e per invitarvi, in tutte le situazioni, a non fermarvi alle apparenze, ma a cercare di vedere sempre le cose in profondità.
“Per prima cosa, dunque, dovete rendervi conto che i monasteri, anche quelli di più stretta clausura, hanno sempre esercitato la carità verso i bisognosi, se pure lo hanno fatto in modo diverso da altri ordini religiosi, come ad esempio le Suore della Carità di San Vincenzo de’ Paoli. Pensate che già i primi monaci, cioè gli antichi Padri del deserto, oltre a pregare notte e giorno, lavoravano fabbricando stuoie con le foglie di palma, poi vendevano le stuoie e uno di loro si incaricava di andare in città per distribuire il ricavato ai poveri.
“Inoltre molti monasteri attraverso i secoli davano ogni giorno da mangiare a centinaia, o anche a migliaia di poveri. Accanto ai monasteri sorgevano spesso ospedali e case di accoglienza per i pellegrini, o anche ospizi per gli anziani.
“Voi direte: ma allora perché, invece di perdere tanto tempo e di utilizzare tante forze all’interno del monastero, le monache non escono e non si dedicano completamente alle opere di carità? Qui c’è un grosso malinteso, che non riguarda soltanto i monasteri, ma anche in genere la vita della società. Cercate di capire che non si può esercitare la carità se non si hanno le forze spirituali, le competenze umane e i beni materiali ad essa necessari. Inoltre bisogna offrire a tutti un modello di vita buona e bene ordinata – un modello che comprenda, tra le altre cose, l’economia e il buon uso del denaro – come un traguardo a cui anche i bisognosi e gli esclusi possano aspirare.
“Se mettiamo esclusivamente l’accento sui doveri verso i poveri, come troppo spesso si fa oggi, finiamo per dimenticare che il Vangelo per prima cosa insegna a tutti la vita buona e virtuosa, nella devozione verso Dio e nella giusta condotta personale. Soltanto da una vita religiosa e virtuosa potranno scaturire le ricchezze materiali e spirituali da condividere con chi non ne ha, e nello stesso tempo soltanto se si ha un sano ideale di vita a cui indirizzare chi ne è lontano si può esercitare un’azione sociale efficace.
“Prima ho accennato alle Suore della Carità di San Vincenzo de’ Paoli. Ebbene San Vincenzo si rendeva conto che troppo spesso i sacerdoti dediti alle opere di carità non vivevano del proprio lavoro, ma di quello che la gente, e spesso la povera gente, dava loro in offerta. Avrebbe voluto che le cose andassero diversamente. Ora proprio una suora del suo ordine, Santa Caterina Labouré, ci ha dato un esempio mirabile di come il suo problema potesse essere risolto, mettendo al suo giuto posto la vita spirituale ed economica interna alla casa – sia essa una casa religiosa o una casa di famiglia.
“Caterina Labouré all’età di dodici anni divenne responsabile della grande fattoria di suo padre, rimasto vedovo. Ella svolse benissimo il suo compito e, grazie all’esperienza di molti anni di lavoro nella fattoria, acquisì tutte le competenze e le virtù necessarie ad una buona amministratrice. Quando, a circa ventidue anni, poté abracciare la vita religiosa, non fu messa subito al servizio dei poveri, non solo perché dovette prima fare il suo noviziato di vita consacrata, ma anche perché, dopo la sua professione, essendo stata mandata in una casa di riposo per anziani, tra cui vi erano molti ex-servitori di una famiglia nobile, non sembrò opportuno mettere lei, ancora molto giovane, direttamente a contatto con ricoverati dai modi spesso poco scrupolosi. Perciò le fu assegnato il lavoro di cucina e poi di lavanderia. Quello era un lavoro adatto per lei. Ella però ben presto si avvide che il terreno della casa era molto trascurato e, con il permesso dei superiori, si impegnò a riorganizzarlo e a farlo fruttare. Data l’esperienza che aveva acquisito nell’amministrazione della fattoria paterna, ciò le riuscì benissimo, cosicché in poco tempo il terreno divenne fonte di sostentamento per la casa e per i ricoverati e anche un luogo ben ordinato e ameno.
“La santa fu un po’ meno efficiente nella compravendita delle mucche da latte, perché si trattava di un lavoro che, nella fattoria della sua famiglia, aveva sempre svolto suo padre. Se avesse avuto maggiore esperienza, anche in questo si sarebbe dimostrata più valida.
“In tutto ciò Caterina non si occupava direttamente dei bisognosi – ciò che ad ogni modo avrebbe fatto in segutio. Ma è chiaro che le Suore della Carità non avrebbero potuto offrire ai poveri un servizio così efficiente, e anche un modello di vita virtuosa e di sana economia, se la loro casa non fosse stata così bene amministrata.
“Vedete dunque che a monte di ogni attività sociale deve sempre esserci l’organizzazione della vita buona, cioè dalla vita religiosa, virtuosa e operosa, nelle comunità di vita consacrata come nelle famiglie. E le vita monastica è sempre stata un modello di vita santa e fruttuosa – un modello che anche gli ordini religiosi dediti a varie forme di attività sociale hanno sempre cercato di salvaguardare al proprio interno”.
Quando l’abbadessa ebbe finito di parlare, ci fu un attimo di silenzio. Poi una ragazza alzò la mano e chiese:
“Mi sembra molto bello quello che lei dice, madre. Ma, oltre a curare la vita interna del monastero e a dare il buon esempio, non avete qualche vostra forma di attività sociale?”
“Certamente, cara. La prima attività ce la indica la stessa Regola di San Benedetto, la quale dice che gli ospiti e i pellegrini, e specialmente i poveri, devono essere accolti come Cristo stesso. E la Regola suggerisce che non bisogna soltanto provvedere alle loro necessità materiali, ma anche edificarli con l’esempio e la condivisione di una vita santa.
“Noi abbiamo qui due forme di accoglienza. In un’ala del monastero abbiamo attrezzato alcuni locali con un ingresso indipendente e con tutto l’occorrente per l’autogestione. Questi locali servono soprattutto per accogliere, a volte anche per periodi abbastanza lunghi, persone fortemente disagiate, che, oltre ad aver bisogno della loro autonomia e libertà, non si troverebbero bene a contatto più diretto con la comunità, e nello stesso tempo facilmente potrebbero creare problemi per la loro instabilità, o anche per la loro eventuale inaffidabilità. Ora, mentre la situazione logistica di quei locali permette l’accoglienza anche di persone difficilmente gestibili, nello stesso tempo la comuità dispone di molti mezzi per tentare di risolvere i loro problemi e per aiutarli a reinserirsi nella società. Ciò che la comunità monastica può offrire non sono soltanto gli aiuti economici, che naturalmente non mancano, ma anche l’aiuto umano e spirituale di cui moltissimi hanno bisogno. Molto spesso, infatti, tanti problemi hanno origine da guasti interiori, che possono essere sanati soltanto attravero una rigenerazione spirituale.
“Ma i disagi delle persone, oltre ad essere curati, meglio ancora dovrebbero essere prevenuti. Per questo noi abbiamo anche una foresteria più a contatto con la comunità, nella quale singoli, gruppi o famiglie possono trascorrere periodi più o meno lunghi per condividere con le monache la vita di preghiera e per sviluppare le virtù della sobrietà, della laboriosità, della pazienza, dell’amore fraterno che con grande impegno vengono coltivate nel monastero. Proprio l’acquisizione di queste virtù costituisce la migliore prevenzione contro i disagi sociali – e l’esempio di Caterina Labouré, che prima vi ho richiamato, lo dimostra”.
“Ma Madre Teresa di Calcutta” disse un’altra ragazza “non preferì uscire dalla comunità monastica per raccogliere i miserabili abbandonati lungo la strada?”
“Veramente” rispose l’abbadessa “Madre Teresa di Calcutta prima di dedicarsi ai più poveri dei poveri non era in una comunità monastica, bensì in un istituto religioso dedito all’insegnamento. E poi ricordati che nella Chiesa non tutti sono chiamati alla stessa missione e che i vari carismi si integrano l’uno con l’altro. Anche le Missionarie della Carità di Madre Teresa hanno un’intensa vita di preghiera comunitaria, e anzi un ramo del loro istituto si dedica esclusivamente alla preghiera. Come vi ho fatto osservare, le opere di carità presuppongono un fondamento di vita buona, spirituale, umana ed anche economica, a cui poter attingere le ricchezze da condividere con i più sfortunati.
“Certamente vi sono stati anche santi che hanno preferito vivere la stessa vita di estremo disagio dei più poveri, anziché avere una propria ricchezza da donare loro. Anche questa è una vocazione degna di ammirazione, ma non è la sola e non è per tutti. E poi anche una vocazione di questo genere deve integrarsi e interagire con le altre vocazioni presenti nella Chiesa.
“Ma ora vorrei dirvi una cosa che vi sorprenderà. L’uomo di oggi non è più capace di apprezzare la vita all’interno della propria casa. Tutti vogliono uscire per farsi valere nella vita sociale, o anche per divertirsi, con misura e senza misura. Sembra che la pace dell’abitazione, il raccoglimento, il lavoro silenzioso tra le mura domestiche non piacciano più a nessuno. Ora la vita di clausura, come quella di noi Benedettine – che in occidente è la più antica ed è stata il modello delle altre – sembra avere oggi la missione di valorizzare una vita spesa tra le pareti domestiche. Qui noi non abbiamo bisogno di andare in giro per realizzare noi stesse e per vivere una vita piena e felice. L’impegno della preghiera liturgica, della cura della casa, della coltivazione, del lavoro artigianale e artistico, della meditazione e dello studio e la condivisione di tutto ciò con le persone che chiedono ospitalità al monastero riempiono perfettamente la nostra vita. Oggi poi possiamo anche discretamente irradiare, più che in passato, questo nostro carisma anche ad un ampio raggio, grazie ai moderni strumenti di comunicazione, quando sono usati con la dovuta moderazione e prudenza. In questo modo per prima cosa possiamo insegnare alle famiglie di oggi a riscoprire la bellezza della vita raccolta all’interno dell’abitazione domestica, della comunione fraterna e del lavoro quotidiano.
“Ma ci sono altre persone che possono trarre un grandissimo benificio dall’esempio della vita monastica, cioè quelle persone che, volenti o nolenti, sono costrette a trascorrere lunghi anni racchiusi tra quattro mura senza possibilità di uscire: i carcerati.
“Abbiamo molto riflettuto su questo, e abbiamo anche molto pregato. Infine, dopo matura riflessione, ci siamo impegnate a costituire un gruppo di persone amiche, tra cui vi sono molti giovani, le quali si stanno impegnando ad insegnare ai carcerati a valorizzare la loro vita all’interno delle carceri seguendo il modello benedettino. Una nostra monaca, che si è ben preparata a questo compito, li segue da vicino dando loro le istruzioni e i consigli necessari.
“Ora i nostri amici stanno tentando di insegnare ai carcerati disponibili – che sono più numerosi di quanto si possa credere – ad approfondire la conoscenza del repertorio sacro per organizzare una bella liturgia, e naturalmente anche a coltivare il canto per renderla ancora più espressiva e attraente. Per questo devono acquisire molte conoscenze di musica. Con i moderni strumenti alcuni carcerati stanno creando loro stessi i propri libri liturgici. I nostri amici poi stanno cercando di interessarli ad imparare i più diversi lavori manuali, artigianali e artistici per rendere più gradevoli, più funzionali e più belle le loro celle. Così i carcerati stanno prendeno gusto a tenere puliti e ordinati i locali della prigione, a lavare da soli i propri panni, a coltivare piante e fiori, a cucinare e anche a fare dolci e dolcetti raffinati da offrire ai loro compagni. Naturalmente siamo appena agli inizi, ma già tra i carcerati che hanno aderito al progetto si sta creando un nuovo spirito di fraternità…”
A questo punto il primo ragazzo che aveva parlato la interruppe:
“Madre!” esclamò “Devo proprio chiederle scusa in ginocchio! Che idiozie ho detto! Chi l’avrebbe mai pensato che le monache di clausura facessero tanto del bene, e non soltanto con la preghiera!”
A questo punto molti altri scout intervennero per fare i loro commenti e Don Franco riuscì solo a fatica a mettere un po’ d’ordine.
Quando finalmente si fece un po’ di silenzio, una ragazza alzò la mano e disse:
“Madre, ci potrebbe dire qualche cosa della sua vocazione?”
L’abbadessa divenne triste e pensierosa.
“Veramente” rispose infine “non mi piace affatto parlare di me. Non dovete pensare che io sia una persona così importante. Sono stata una ragazza come voi, con mille difetti, e ho fatto grandissimi errori. Non vi dico i particolari. Accenno soltanto al fatto che a un certo punto ero giunta al fondo della disperazione. Ma il Signore era vicino a me, anche se io non lo sapevo, e quando sembrava che per me non ci fosse più alcuna speranza, egli mi ha aperto una meravigliosa strada di salvezza nel modo più impensato. Allora per me non ha contato più nulla se non lui solo, e ho sentito che la mia vita non poteva avere alcun senso, se non donandomi completamente a lui.
“Ecco! Vi prego: non fatemi più altre domande su questo argomento. E’ qualcosa di troppo personale e preferisco non parlarne”.

A colloquio con l’abbadessa

Quando l’incontro finì e gli scout incominciarono ad uscire dalla sala delle conferenze, Vittoria e Margaret si avvicinarono all’abbadessa e le chiesero se era possibile parlare con lei in privato.
“Certamente!” disse l’abbadessa sorridendo alle due ragazze. “Andate verso la porta di fronte alla sala delle conferenze. E’ l’ingresso del parlatorio. Vado subito ad aprirvi”.
Vittoria e Margaret seguirono le indicazioni dell’abbadessa e poco dopo si ritrovarono nel parlatorio del monastero. La stanza era ornata di belle immagini sacre. Al centro vi era un tavolo con diverse sedie. Nella parete che guardava verso l’interno si apriva una grata nascosta da una tenda.
Pochi istanti dopo si aprì la tenda e dietro la grata apparve l’abbadessa che le guardava con il viso sorridente.
“Prego! Accomodatevi!” disse. Poi, girando la chiave in un’apposita serratura, aprì la grata e si sporse per stringere la mano delle due ragazze.
“Allora!” aggiunse. “Cosa posso fare per voi?”
Le due ragazze si sedettero e Vittoria disse con voce un po’ timida:
“Per prima cosa la ringraziamo di cuore per le belle cose che ci ha detto. Vorrei poi aggiungere che il suo discorso ci ha suggerito di parlarle di una cosa che ci sta molto a cuore. Ma intanto presentiamoci: io sono Vittoria Castelli e lei è Margaret Temple. Siamo amiche da molti mesi e ora non stiamo a raccontarle come è nata la nostra amicizia né tutte le cose che da allora sono successe. Ma di una cosa vorremmo metterla al corrente.
“Come avrà capito, Margaret è inglese. In Inghilterra, anzi propriamente nel Galles, l’anno scorso abbiamo conosciuto un posto molto bello. Si tratta di una fattoria presso la quale sorge una cappella, che tra l’altro è situata in cima ad una collina, un po’ come il vostro monastero.
“Non mi dilungo sulle circostanze che ce l’hanno fatta conoscere. Basta dire che nella fattoria, che appartiene ad una signora inglese, da qualche anno un gruppo di giovani ha organizzato una coltivazione di prodotti biologici. I giovani e le ragazze che risiedono nella fattoria sono tutti regolarmente sposati, almeno civilmente…”
“Dobbiamo precisare” intervenne a questo punto Margaret “che naturalmente la proprietaria della fattoria, la Signora Baker, è protestante. Discende da una famiglia di pastori della Chiesa del Galles ed è una persona molto religiosa. Ai giovani che le hanno chiesto di poter gestire la coltivazione biologica nella fattoria ha posto come condizione che non si creassero situazioni di promiscuità o relazioni saltuarie, ma che i ragazzi e le ragazze che volevano vivere nella fattoria fossero regolarmente sposati”.
L’abbadessa annuì sorridendo e Vittoria, sentendosi incoraggiata, riprese:
“Poco tempo fa è successo che il nipote della Signora Baker, John, si è anche lui stabilito ad Oak Farm – è il nome delle fattoria. Infatti, dopo un periodo di incertezza, finalmente ha conosciuto una bravissima ragazza e pochi mesi fa, durante il periodo natalizio, si sono sposati nella cappella di Oak Farm e sono andati a vivere nella fattoria.
“Ora Dorothy – la moglie di John – prima di conoscerlo e di accettare di sposarlo, era stata molto amica di una ragazza di nome Erika, la quale è morta tragicamente dopo aver bevuto una droga in una discoteca. Recentemente la sorella di Erika, Edith, che si è diplomata come assistente sociale, ha incominciato a lavorare con i giovani che conducono vita notturna a Londra. L’esperienza di questi mesi le ha suggerito un’idea: ha chiesto a Dorothy – a cui è molto legata – e alla Signora Baker se ad Oak Farm sarebbe possibile ospitare, per periodi di tempo più o meno lunghi, giovani e ragazze rovinati dalla vita notturna per aiutarli a ritrovare se stessi nella tranquillità della fattoria, anche con l’aiuto umano che potrebbero offrire Dorothy, John e la Signora Baker.
“La proposta è stata accettata con entusiasmo, e ora la Signora Baker sta predisponendo, nella casa padronale di Oak Farm, un appartamento in grado di ospitare, a un prezzo molto basso, due ragazze o due ragazzi, che hanno bisogno di uscire da situazioni dolorose.
“Oggi, ascoltando le sue spiegazioni, mi è venuto spontaneo di accostare la vita che si svolge ad Oak Farm a quella del vostro monastero. E’ vero che la famiglia Baker è protestante e che l’elemento religioso lì rimane un po’ nascosto sullo sfondo. Tuttavia a me sembra che ci siano tante somiglianze.
“Come dicevo, l’elemento religioso apparentemente è poco presente ad Oak Farm. Ma ricordiamoci che per tante generazioni la fattoria è appartenuta a una famiglia di pastori, come è testimoniato anche dalla cappella sulla collina. Inoltre la Signora Baker ha restaurato tutta la proprietà proprio per devozione al ricordo della madre e di tutto ciò che per lei significava l’eredità spirituale dei pastori della sua famiglia. Poi l’esigenza da lei posta, apparentemente poco significativa, che i giovani che volevano vivere lì fossero sposati, almeno civilmente, di fatto ha dato a tutto l’ambiente un carattere di grande moralità. E tutti i bambini vengono educati nella religione.
“Ma ciò che ricorda più di ogni altra cosa il monastero è la vita regolare che si svolge nella fattoria e l’apertura all’accoglienza per chi ha bisogno di ritrovare se stesso. Penso che questa accoglienza, un po’ benedettina, sia stata sperimentata da molti dei giovani che si sono stabiliti ad Oak Farm. Ma soprattutto questa è stata l’esperienza di Dorothy, e ciò spiega il suo entusiasmo nell’accettare la proposta di Edith”
“Quello che noi vorremmo” disse a questo punto Margaret “è che si creasse un rapporto stabile tra Acquafredda e Oak Farm. Lei stessa ha detto che oggi, con i moderni strumenti, il carisma del monastero più facilmente si può irradiare all’esterno. Non si potrebbe allora far conoscere a Dorothy e alla Signora Baker tanti aspetti della vostra vita, come ad esempio la vostra bellissima liturgia, in modo che anche ad Oak Farm l’elemento religioso venga rafforzato? E poi i giovani ospitati nella fattoria potrebbero avere il beneficio delle vostre preghiere e anche di qualche vostra parola di incoraggiamento”.
A questo punto le due ragazze tacquero aspettando con una certa trepidazione la reazione della madre abbadessa.
Quest’ultima, che le aveva ascoltate attentamente con un sorriso incoraggiante sulle labbra, non rispose subito, ma per qualche istante rimase silenziosa a riflettere. Infine disse:
“Vi ringrazio di cuore per tutto quello che mi avete detto e per la vostra proposta, che è veramente molto bella. Credo proprio che quello che voi dite si possa fare. Ora naturalmente è troppo presto per dire come la cosa si potrebbe organizzare. Ma intanto un contatto con Dorothy e con la Signora Baker mi farebbe immensamente piacere”.
Vittoria e Margaret si scambiarono un’occhiata piena di gioia.
“Oh, madre!” disse Vittoria. “Sono così felice! Temevo proprio che rifiutasse! Dentro di me una vocina mi diceva che era un’idea sciocca e puerile! Non mi sembra vero che invece lei l’abbia approvata!”
“Ma” intervenne Margaret, “non ci sarà qualche problema per la lingua?”
“Oh no!” rispose l’abbadessa. “Per questo siamo attrezzate. Abbiamo in comunità una consorella irlandese, e poi anch’io me la cavo, e anche altre due o tre monache”.
“Allora madre, prima che finisca il campo verremo ancora a trovarla e le porteremo tutte le informazioni necessarie per stabilire un contatto. Prima però è meglio che aspetti che torniamo a Roma e che sentiamo anche loro. Ma sono certissima che non avranno nulla in contrario”.
“Anzi” disse Margaret, “faranno i salti dalla gioia!”
Le due ragazze si alzarono e, dopo un ultimo saluto all’abbadessa, si avviarono all’uscita discutendo animatamente del loro progetto.

La croce in cima al monte

Un’altra persona era rimasta fortemente colpita dal discorso dell’abbadessa, soprattutto dalle sue ultime parole: Francesca.
Dopo essere uscita dal monastero, la ragazza si era allontanata dagli altri, desiderando restare da sola a riflettere. Sedutasi su una panchina in un angolo del giardino aveva appoggiato i gomiti sulle ginocchia e il mento nel cavo delle mani ed era rimasta per lungo tempo immobile guardando fisso davanti a sé.
Quando sembrava che non ci fosse più alcuna speranza, il Signore le aveva aperto una meravigliosa strada di salvezza nel modo più impensato – aveva detto l’abbadessa. Magari la stessa cosa potesse succedere a lei! Ma come era possibile? Non vedeva proprio come ciò potesse realizzarsi.
“Penso che mi piacerebbe parlare con l’abbadessa. Finora ho sempre avuto orrore del pensiero di confidarmi con qualcuno, e poi c’è di mezzo un giuramento. Giulia dice che è un giuramento che non vale. Ma sarà vero? Ora che ho conosciuto l’abbadessa vorrei veramente che fosse un giuramento fasullo! Con lei sento che parlerei volentieri, anche se sono certa che non potrebbe fare nulla per me.
“E poi, come faccio ad andare da lei? Lei è un’abbadessa e io sono una ragazzina!
“No! Non è possibile! Non avrà tempo per me, e poi non ne ho il coraggio! Se mi cacciasse via sdegnata, penso che morirei dal dispiacere”.
Si guardò intorno ascoltando il canto degli uccelli.
“E’ bello questo posto!” pensò. “Mi piacerebbe restare qui per sempre, cullarmi ai raggi del sole e dimenticare tutto! Perché non posso farlo?”
Vedendo gli scout che si avviavano verso il campo, si riscosse e si alzò in piedi.
“E’ meglio che li raggiunga” pensò. “Non vorrei rimanere indietro”.
Si avviò verso di loro e poco dopo vide Giulia che correva verso di lei.
“Francesca!” le gridò l’amica quando fu a portata di voce. “Dove ti eri cacciata?”
“Stavo qua nel giardino” rispose.
“Mi hai fatto preoccupare! Su, vieni che andiamo al campo!”
“Vengo, vengo!”
“Ti è piaciuto l’incontro con l’abbadessa?” le chiese Giulia mentre si incamminavano per raggiungere gli altri.
“Sì, molto”.
“Ti sei convinta che hai fatto bene a venire?”
“Sì, certo!”
“Però devi cercare di mettere via quell’aria da funerale!”
“Oh! Lasciami in pace!”
“Va bene. Senti: domani mattina Don Franco e Charles andranno alla messa crismale. Noi, con Emma, Gianni e Claudio andremo a fare una passeggiata su una montagna qua vicino. Sarà un po’ faticoso, soprattutto per noi che non siamo abituate, ma penso che sarà molto bello. Mi raccomando, non dire che non vuoi venire!”
“No, no! Vengo volentieri. E poi il programma che cosa prevede?”
“Ci porteremo il pranzo al sacco e mangeremo sulla cima della montagna. Poi torneremo indietro per la messa del Giovedì Santo”.
“La messa si terrà nella chiesa delle monache?”
“Certo!”
“Bene! Sono contenta. Lì mi ci trovo bene”.
Intanto avevano raggiunto il campo, dove poco dopo gli scout incominciarono a darsi da fare per preparare da mangiare. Anche Giulia e Francesca aiutarono, e un po’ sul presto, prima che facesse notte, fu servita la cena.
Per mangiare gli scout si disposero in circolo intorno a un fuoco che era stato acceso nel centro del prato e passarono un po’ di tempo a parlare e a cantare. Intanto si era fatto buio e, essendo tutti molto stanchi, abbastanza presto si alzarono, recitarono le preghiere della sera e si ritirarono nelle tende a dormire.
Il giorno dopo, ultimate le pulizie mattutine e la colazione, gli scout si disposero in fila per squadriglie e, guidati da Emma e dagli altri capi, si avviarono per la camminata in programma.
Presero un sentiero che, attraverso un bosco di querce, li condusse ad una radura ai piedi di un monte abbastanza alto. Nella radura c’era una fontana e gli scout si fermarono qualche minuto per abbeverarsi, gustando con gioia l’acqua freschissima che sgorgava dalla cannella della fonte e riempiva la grande vasca sottostante.
Quando tutti si furono dissetati, ripresero la marcia, avviandosi lungo una strada sassosa che si inerpicava sul pendio della montagna tra prati e boschetti di conifere.
La salita durò a lungo e fu abbastanza faticosa, soprattutto per chi, come Giulia e Francesca, non era abituato alle lunghe marce. Ma le due ragazze accettarono il disagio con spirito sportivo e non mancarono di apprezzare la bellezza del paesaggio e l’atmosfera gioiosa della marcia.
A fine mattina arrivarono finalmente in cima al monte, dove era piantata una grande croce.
“Ragazzi!” disse Emma, che faceva un po’ da capo. “Eccoci arrivati. Adesso riposatevi un po’. Tra poco ci prepareremo per il pranzo”.
Poi si rivolse a Giulia e a Francesca e chiese loro:
“Allora, come è andata?”
“Abbastanza bene!” rispose Giulia.
“Un po’ faticoso” aggiunse Francesca, “ma ne valeva la pena. Quassù è veramente molto bello!”
Dalla cima del monte si godeva una vita incantevole. Lo sguardo spaziava in lontananza per un vasto orizzonte, tra monti, boschi, prati e laghetti. L’aria era fresca e pura e Francesca sembrò qusi dimenticare le sue solite angosce e divenne loquace e sorridente.
“Bene, ragazzi!” disse dopo un po’ Emma. “Ora disponiamoci in circolo intorno alla croce, diciamo una preghiera e poi tiriamo fuori le provviste per il pranzo”.
Gli scout si disposero per squadriglie intorno alla croce, recitarono alcune preghiere e poi si gettarono avidamente sulle provviste che avevano portato con sé.
Erano tutti molto affamati e assetati e ben presto, nello spiazzo intorno alla croce, si formarono gruppetti sparsi di giovani che mangiavano, bevevano dalle borracce, e conversavano allegramente.
Giulia e Francesca si unirono al gruppetto dei capi e mangiarono insieme a loro.
A Francesca era venuto un appetito che non provava da tempo e non si fece pregare due volte a divorare con gusto la sua porzione.
Senza darlo a vedere, Emma la teneva d’occhio e spiava il momento adatto per parlare un po’ con lei.
L’occasione si presentò quando, ultimato il pranzo, i giovani si dispersero in varie direzioni per svagarsi un po’ prima della partenza, che era stata fissata dopo una mezz’ora.
Anche Giulia si era allontanata e Emma ne approfittò per avvicinarsi a Francesca e per parlare un po’ con lei.
“Allora!” le disse sorridendo. “Ti piace la vita al campo?”
“Sì!” rispose Francesca timidamente. Come le succedeva sempre, subito dopo il pranzo le erano tornati i sentimenti di angoscia e di panico e tutto il benessere che aveva provato fino a poco prima era sparito.
“Spero che ora ti senti più serena” riprese Emma.
“Questa mattina mi sembrava veramente di star meglio. Ma ora non mi sento bene. E’ come se volessi scappare via e tornarmene a casa”.
“Pensa che oggi è Giovedì Santo. E’ una giornata importante e molto adatta per la preghiera e la riflessione. Dovresti approfittarne per chiedere a Dio di aiutarti ad uscire dal tuo stato d’animo negativo”.
Francesca abbassò gli occhi con aria triste e non rispose nulla.
“Su!” disse Emma con voce premurosa e incoraggiante. “Dimmi la verità: che cos’è che ti angustia?”
Francesca la guardò per qualche istante in silenzio. Poi rispose:
“No! Non lo posso dire! Non posso neanche pregare!”
“Ma cosa dici!? Tutti possono pregare, anche gli assassini! E certamente tu non sei un’assassina!”
Francesca scosse il capo e non rispose.
“Senti!” riprese Emma. “Tra poco ritorniamo al campo e ci prepariamo per la funzione. E’ una messa importante: si commemora l’ultima cena e l’istituzione dell’eucaristia. Non c’è un momento migliore per riavvicinarsi al Signore, qualsiasi cosa ci tormenti. Se pensi che ci ha donato il suo stesso corpo e il suo stesso sangue come nostro cibo, non puoi non avvicinarti a lui con piena fiducia. Prima della messa ci sarà un po’ di tempo per la preparazione. Forse un’oretta, o poco meno. Perché non ne approfitti per perlare un po’ con Don Franco? E’ un sacerdote molto bravo che conosce bene i giovani. Sono anni che lavora con loro. Con lui puoi essere sincera. Digli tutto quello che ti angustia, e vedrai che saprà autarti”.
Francesca la guardò per un po’ con gli occhi umidi.
“Grazie Emma!” disse infine. “Grazie del tuo interessamento! Ma non so se potrò fare quello che mi dici. Almeno per ora”.
Emma capì che non era il caso di insistere e, vedendo gli altri che si avvicinavano, disse:
“Va bene! Fa’ quello che ti senti di fare. Ma pensa bene a quello che ti ho detto!”
Francesca annuì sorridendo con aria triste e si allontanò.
Intanto i ragazzi si stavano radunando ricompattandosi per squadriglie.
I capi li fecero disporre in una fila ordinata e poi dettero il segnale della partenza.
Il ritorno, essendo in discesa, fu meno faticoso e richiese meno tempo, cosicché arrivati al campo calcolarono che c’era ancora un’ora abbondante prima dell’inizio della messa. Dopo essersi assicurata che Don Franco e Charles fossero tornati, Emma disse ai ragazzi:
“C’è più di un’ora prima della messa. Don Franco sta nella sua tenda. Chi vuole può andare a parlare con lui per un colloquio spirituale, o anche, se c’è bisogno, per la confessione. Ma cerchiamo tutti di trascorrere questo tempo di preparazione alla messa in silenzio e in raccoglimento. Ricordiamoci che con la messa di questa sera incomincia il triduo della Settimana Santa. Sono i giorni più sacri di tutto l’anno e dobbiamo cercare di viverli nel raccoglimento e senza distrazioni inutili. Bene! Dunque da questo momento osserviamo il silenzio. Chi deve dire qualche cosa, lo faccia a voce bassa, con poche parole e senza disturbare gli altri”.
Francesca, dopo aver ascoltato attentamente l’esortazione di Emma, si allontanò un po’ dal campo e andò a sedersi da sola sull’erba in un posto isolato.
“Ci vado a parlare con Don Franco?” si chiese. “Parlare con qualcuno è sempre un sollievo. Ma purtroppo non sempre è possibile. Che fare?”
Rimase a lungo in silenzio. Poi si distese nell’erba e rimase a fissare le chiome degli alberi che svettavano sopra di lei.
Passò molto tempo e a un certo punto si udì lo squillo di una campana.
Francesca si riscosse e si alzò in piedi.
“Oh, mamma mia!” si disse. “E’ già ora della messa! Adesso, anche se volessi parlare con Don Franco non ne avrei neanche il tempo! E poi, penso proprio che non sia possibile!”
Spazzò via dei ciuffi d’erba che le erano rimasti attacati al vestito e si avviò per raggiungere gli altri.
Sotto la guida dei capi e di Don Franco, gli scout, ordinati per squadriglie, si diressero verso il monastero e dopo pochi minuti entrarono in chiesa.
Mentre Don Franco si preparava in sagrestia, gli scout eseguirono alcuni canti. Poi incominciò la messa.
Per Francesca si trattava di una cosa inusuale. Dal tempo della sua cresima, molto raramente era stata in chiesa e non ne aveva mai sentito l’attrattiva. Ma quella chiesa, da quando vi aveva messo piede il giorno prima e soprattutto dopo che aveva sentito il discorso dell’abbadessa, aveva acquistato per lei un fascino particolare.
Seduta al banco in silenzio, osservava attentamente lo svolgersi della funzione e fu molto colpita della lavanda dei piedi e dalle parole con cui Don Franco spiegava il significato dei riti e delle letture bibliche.
Al momento della comunione fu assalita da una fortissima angoscia. Perché gli altri potevano accostarsi al sacramento e lei no? Che tristezza vedere tutti, anche Giulia, procedere in processione per ricevere dalle mani del sacerdote il Corpo di Cristo, e sentirsi costretta ad essere diversa e ad essere privata della partecipazione ad una festa così commovente!
Ma la sua tristezza si cambiò in viva ammirazione al momento della processione finale con il Santissimo Sacramento, accompagnata dal canto del “Pange lingua”, eseguito con grande espressione dal coro delle monache, e della reposizione finale del Pane Eucaristico nel tabernacolo, sistemato per l’occasione sull’altare adornato a festa con bellissime decorazioni floreali.
Terminato il canto con le solenni strofe del “Tantum ergo”, la cerimonia si concluse nel più assoluto silenzio, mentre Don Franco copriva le immagini sacre e gli scout e gli altri fedeli rimanevano a lungo in ginocchio in adorazione del Santissimo Sacramento.
Anche Francesca si inginocchiò e, mentre gli occhi le si inumidivano, quasi contro la sua volontà una muta preghiera di disperata invocazione le sgorgò dal cuore.
Quella sera gli scout mangiarono in silenzio e, dopo aver fatto a turno un’ultima visita in chiesa, si ritirarono a dormire in silenzio nelle loro tende.
Francesca seguì volentieri l’esempio degli altri e quando rientrò nella tenda per mettersi a dormire sentì dentro di sé un senso di pace profonda che non aveva mai provato prima.
“Come sono belli tutti questi riti!” pensò mentre si coricava. E quando chiuse gli occhi e incominciò a prendere sonno le parve che nel dormiveglia una voce le suggerisse che forse, in qualche modo misterioso, un rimedio c’era per quel peso tremendo che le gravava sul cuore.

Il canto del dolore e della speranza

La mattina dopo Francesca si svegliò molto presto. Era ancora buio e tutti dormivano nella tenda. Aveva riposato bene, senza incubi o turbamenti, e ora sentiva che non avrebbe più potuto riprendere sonno.
In silenzio si alzò, si vestì e uscì dalla tenda senza svegliare nessuno.
Nel silenzio del campo addormentato si sentivano tutti i misteriosi rumori della campagna prossima a risvegliarsi. Nel cielo apparivano le prime luci dell’alba.
Francesca sentiva ancora dentro di sé qualche cosa della misteriosa pace che l’aveva inondata la sera prima. Ancora aveva in mente il ricordo della bellissima cerimonia del giorno precedente e spontaneamente le nacque il desiderio di tornare in chiesa.
“Chissà se è aperta?” si chiese.
Lentamente si avviò lungo il pendio del colle, raggiunse il giardino d’ingresso al monastero, lo attraversò e si trovò di fronte al portone delle chiesa. Era aperto.
Entrò timidamente e vide l’altare ornato di fiori e illuminato da sei bellissimi candelabri e dietro l’altare le monache in coro intente a cantare l’ufficio notturno.
Si avvicinò in silenzio e si pose a sedere in un banco.
Il canto delle monache era austero e struggente.
“Che commozione!” pensò Francesca. “Un canto di dolore che risuona nel silenzio del primo mattino!”
La chiesa non era eccessivamente grande e alcune parole cantate in latino dalle monache giunsero distintamente al suo orecchio:
“Cui comparabo te? Vel cui assimilabo te, filia Ierusalem? Cui exaequabo te, et consolabor Virgo, filia Sion? Magna est enim velut mare contritio tua”.
Francesca non era molto ferrata in latino, ma le parve di capire qualche cosa.
“Contritio… che cosa vuol dire contritio? Ah, sì: dolore! Dunque: grande come il mare è il tuo dolore! Oh, santo cielo!”
Le vennero le lacrime agli occhi e, non riuscendo a controllare la sua emozione, senza far rumore, uscì dalla chiesa e si inoltrò nel giardino.
Il cielo si era rischiarato e l’orizzonte ad oriente si ammantava di bagliori dorati.
Francesca si fermò al centro del giardino e rimase immobile ad ascoltare il primo canto degli uccelli.
“Che cosa mi succede?!” si chiese. “Mi sembra che qualche cosa si risvegli dentro di me, come una luce di speranza, come una vita nuova! Forse veramente posso parlare con l’abbadessa!”
Dopo una lunga esitazione si voltò e rientrò nella chiesa.
In quel momento le monache stavano cantando l’antifona finale dell’ufficio delle lodi del Venerdì Santo:
“Christus factus est pro nobis obediens usque ad mortem, mortem autem crucis”.
Il canto scese verso le note basse e si arrestò. Ci fu una pausa. Poi le monache ordinatamente e in silenzio uscirono dal coro.
“Che incanto!” pensò Francesca. “Ma ora che la preghiera è finita, forse sarà possibile parlare con l’abadessa!”
Si alzò, uscì dalla chiesa e suonò il campanello della portineria del monastero.
“Deo gratias!” rispose poco dopo la voce di una monaca. “Chi è a quest’ora?”
“Mi scusi, suora!” rispose Francesca. “Sono una ragazza del campo scout. E’ possibile per favore parlare con la madre abbadessa? Si tratta di una cosa importante!”
“Sì, certo! Entri e vada a sinistra. Le apro la porta del parlatorio”.
Il cuore di Francesca ebbe un balzo di gioia.
“Grazie, suora!” esclamò.
Dunque l’abbadessa la riceveva! Non le sembrava vero!
Entrò nel parlatorio e attese. Dopo qualche minuto le luci si accesero, la tenda si aprì e, dietro la grata, apparve il viso sorridente dell’abbadessa.
“Deo gratias!” esclamò l’abbadessa, mentre girava la chiave della serratura e apriva la grata. “Benvenuta! Sei una del gruppo scout?”
“Sì, madre. Mi chiamo Francesca e ho un bisogno grandissimo di parlare con lei!”
“Prego! Accomodati e di’ pure in che cosa posso esserti utile”.
Francesca si sedette e dopo qualche attimo di silenzio disse con il volto triste e la voce tremante:
“Madre, io ho una brutta storia alle spalle. Così brutta che faccio fatica a parlarne. Mi sembra quasi impossibile porre rimedio al male che ho fatto. Ho detto «quasi impossibile», ma fino a poco fa avrei detto «impossibile», senza quasi. Ora però mi è sorta la speranza che un miracolo possa ancora salvarmi e che questo miracolo possa farlo soltanto lei”.
“Ma cosa dici!?” esclamò l’abbadessa sorridendo. “Io non faccio miracoli, e poi non devi mai pensare che non c’è rimedio al male compiuto! Ad ogni modo, se sei convinta che io possa fare qualche cosa, raccontami pure quello che ti è successo”.
“Quello che le dirò non l’ho detto a nessuno, e anzi, fino a poco fa pensavo che non potessi dirlo a nessuno, perché certe persone malvagie mi hanno fatto giurare che non ne avrei mai parlato con altri. Ma ora mi sono convinta che il giuramento fatto a quelle persone non vale, perché mi è stato estorto con l’inganno.
“La mia brutta storia è incominciata qualche mese fa, quando alcuni compagni di scuola mi hanno convinto a partecipare alle feste e agli incontri organizzati da alcune persone, loro amiche, con intenti molto particolari. Infatti in questi incontri si parlava soprattutto di magia, e, con belle parole, ci hanno fatto credere che la magia era una cosa innocua che ci avrebbe permesso di sviluppare le nostre energie segrete e di ottenere poteri e guadagni straordinari. Non le dico ora fino a che punto ci hanno condotto con questa storia. Una volta sono arrivata fino ad invocare il demonio, anche se allora mi sembrava più che altro uno scherzo.
“Intanto gli incontri e le feste si facevano sempre più frequenti e, attraverso internet, eravamo tutti in contatto tra noi e accedevamo a certi siti magici pieni di misteri che allora ci affascinavano. Spesso gli incontri e i contatti si prolungavano fino a notte inoltrata, tanto che a un certo punto incominciai a moltiplicare le assenze a scuola perché la mattina ero stanca e non mi sentivo bene. Anzi, le assenze sono state tante che con ogni probabilità ora perderò l’anno scolastico.
“Ma la cosa più tremenda mi è successa in occasione dell’ultima festa che abbiamo fatto, a gennaio.
“Penso che lei conosca il «Faust», il famoso poema di Goethe”.
L’abbadessa annuì e Francesca riprese la sua narrazione.
“Allora ricorderà che nel «Faust» è rappresentata la notte delle streghe, che ha un nome magico e misterioso: la notte di Valpurga. Il gruppo di persone di cui sto parlando aveva preso il nome di «Nuova Valpurga» e la festa a cui eravamo invitati a partecipare a gennaio sarebbe stata appunto per noi la Notte di Valpurga.
“Doveva essere un incontro decisivo per la nostra iniziazione alla magia. Gli organizzatori dovevano dare a ciascuno di noi in segreto un nome nuovo, che solo l’interessato e nessun altro doveva sapere. Questo nome sarebbe stato come il sigillo della nostra nuova vita magica. Inoltre a ciascuno di noi sarebbe stato dato un appuntamento personale e privato per assistere ad una seduta spiritica.
“Durante quella festa, quando venne il mio turno, mi chiamarono al colloquio segreto e mi dissero: tra tutte le ragazze e i ragazzi che partecipano ai nostri incontri tu sei di gran lunga la più brava. Quindi non possiamo accontentarci di darti soltanto le nozioni basilari, ma vogliamo che entri fin da ora nella profondità dei misteri. Per questo abbiamo deciso di dare a te un nome dal valore simbolico straordinario, che farà di te una strega di primo livello. Alle altre streghe abbiamo dato nomi poco significativi, ma a te daremo il nome dei nomi: ti chiamerai «la strega Valpurga».
“Come se ciò non bastasse, al termine del colloquio chiamarono un tecnico e gli dissero di scrivermi sulla spalla, con un tatuaggio indelebile, il nome «Valpurga». Io a questo punto incominciai ad aver paura, ma non osai oppormi a quanto essi avevano deciso. Così il terribile tatuaggio fu fatto. Non l’ho mai detto a nessuno, ma sulla mia spalla sinistra è inciso in modo indelebile il nome «Valpurga». Ecco, guardi!”
Ciò dicendo Francesca si scoprì la spalla sinistra e mostrò all’abbadessa la parola «Valpurga» incisa in bei caratteri gotici.
“Ora dunque” riprese Francesca “sono segnata a vita da questa parola magica, dalla quale non mi potrò mai liberare!”
Durante l’ultima parte del suo racconto Francesca si era sentita un po’ a disagio perché vedeva che l’abbadessa continuava a guardarla sorridendo e che anzi il suo sorriso aumentava sempre di più. Sembrava che si stesse divertendo. La ragazza al termine della narrazione rimase in silenzio guardando l’abbadessa con aria interrogativa e perplessa.
Dopo un attimo di silenzio, l’abbadessa le disse:
“Ma cara Francesca, ti sei mia chiesta che cosa significa la parola «Valpurga»?”
“E’ un nome magico!”
“No, cara, non è un nome magico. E il nome di una santa!”
“Di una santa!” esclamò Francesca sbarrando tanto d’occhi.
“Certo! Anzi, di una santa benedettina, amica della mia protettrice Santa Lioba!”
“Oh, santo cielo! Ma cosa dice!?”
“Stammi a sentire. Di Santa Valpurga si celebrano due feste: una, il 25 febbraio, che è l’anniversario della morte, e una il primo maggio, che è l’anniversario della traslazione del suo corpo alla città di Eichstätt. Secondo una tradizione risalente ai tempi dell’antica Germania pagana, la notte tra il 30 aprile e il primo maggio le streghe celebravano i propri incantesimi. Quando dunque la festa di Santa Valpurga fu introdotta in Germania, alla data del primo maggio, la notte delle streghe fu chiamata Notte di Santa Valpurga. Ma in tedesco si dice semplicemente Walpurgisnacht: così un po’ alla volta si è dimenticato che era il nome di una santa – la quale, naturalmente, non c’entra nulla con le streghe.
“Anzi, Valpurga è stata una grande santa, come anche Lioba. Ambedue facevano parte di quelle monache inglesi che nel secolo ottavo vennero in Germania per collaborare alla missione benedettina dei santi Villibrordo, Villibaldo, Vunibaldo ed altri ancora – gli ultimi due tra l’altro erano fratelli di Santa Valpurga – e soprattutto di San Bonifacio, che è chiamato l’apostolo della Germania. San Vunibaldo era abate del monastero doppio di Heidenheim – si trattava, cioè, di un monastero con due comunità, una maschile e una femminile, secondo un modello importato dall’Inghilterra. La missione dei benedettini inglesi in Germania si appoggiava soprattutto sull’irraggiamento spirituale e culturale dei monasteri. Infatti molti monasteri furono fondati in Germania dai monaci e dalle monache inglesi. Il più famoso è quello di Fulda, che fu fondato da San Bonifacio.
“Avrai sentito dire tante volte che la Chiesa ha mortificato le donne rinchiudendole dentro casa per le faccende domestiche. Ma monache come Lioba e Valpurga non furono certamente mortificate dentro casa! Lioba organizzò la vita monastica femminile in Germania, era consultata anche dai vescovi e San Bonifacio volle che fosse sepolta accanto a lui. Valpurga fu nominata abbadessa del monastero doppio di Heidenheim insieme a suo fratello, e quando lui morì, nel 761, divenne unica abbadessa di tutto il monastero per diciott’anni. Erano monache colte e tra loro vi erano anche scrittrici, come Ugeburga, che scrisse la vita dei due fratelli di Santa Valpurga.
“E quando in Inghilterra i monasteri furono distrutti dall’invasione danese, la tradizione delle monache colte e autorevoli continuò per lungo tempo in Germania. Ma l’impulso era venuto dalle benedettine inglesi.
“Come vedi, dunque, il tuo tatuaggio non ti segna a vita come una strega, ma, al contrario, ti mette sotto la protezione di una grande santa. Anzi, io ti suggerirei di farci aggiungere una S davanti!”
“Oh, madre!” esclamò Francesca guardando l’abbadessa con gli occhi pieni di stupore e di gioia. “Ma questo è proprio un miracolo! E’ assolutamente incredibile! Si ribalta tutto! E io che temevo di parlarne perché credevo che non ci fosse più rimedio! Oh, madre! Io non so come ringraziarla! Lei mi ha proprio guarita! Mi sembra di essere rinata a una vita nuova dopo un incubo infinito!”
“Se vuoi chiamalo miracolo. A me sembra una cosa molto semplice!”
“Oh, no! Secondo me sono pochi a sapere queste cose. Se non fosse stato per lei, chissà per quanto tempo sarebbe durato ancora il mio incubo!
“Senta, madre: ora devo scappare. Altrimenti le altre, vedendo che non ci sono, si preoccupano e chissà che cosa pensano. Ma stia sicura che prima di partire vengo a trovarla di nuovo! Oh, come avrei fatto senza di lei!?”
“Va bene, cara” disse l’abbaddessa alzandosi e stringendole la mano. “Ora va’ in pace e scaccia per sempre quei brutti pensieri dalla tua testa!”
“Ci può contare!” esclamò Francesca. E, dopo aver dato un’ultima stretta di mano all’abbadessa, uscì di corsa dal monastero.

Il segreto di Francesca

Francesca attraversò in fretta il giardino e si precipitò per la discesa per raggiungere al più presto l’accampamento degli scout. Era così piena di gioia che le sembrava di volare.
Giunta presso la tenda, incontrò Margaret che si dirigeva verso il vicino ruscello per lavarsi. Senza neanche riprendere fiato si gettò tra le sua braccia esclamando:
“Oh! Margaret! Sono così felice! Non sai quanto ti voglio bene! Che luce meravigliosa mi è venuta dall’Inghilterra!”
Margaret l’abbracciò contentissima di vederla così cambiata, ma nello stesso tempo molto stupita delle sue parole.
“Ma cosa dici?!” esclamò. “Che cosa ti è successo?!”
“Oh, no! Ora non me la sento di raccontarlo! E’ troppo bello! E’ qualche cosa che devo tenere nascosta come un segreto prezioso, almeno per un po’ di tempo! Ma poi te lo dirò! Certamente! Oh, sono così felice che vorrei ballare dalla gioia!”
“Ne sono molto, molto contenta, e spero che al più presto mi spiegherai che cosa ti è succeso di così bello, e che cosa c’entra l’Inghilterra! Ma ora diciamolo anche alle altre, che sono molto preoccupate per te”.
“Sì! Diciamolo! Presto!”
Francesca si precipitò verso la tenda gridando:
“Giulia! Vittoria!”
Le due ragazze si affacciarono sulla soglia e Francesca le prese per mano guardandole negli occhi con il viso trasfigurato dalla gioia.
“E’ tutto passato!” eslamò. “E’ tutto finito! I miei incubi sono spariti!”
“Che bella notizia!” disse Vittoria, contentissima di vedere Francesca così cambiata.
“Ma cosa ti è successo?” chiese Giulia stringendo calorosamente la mano dell’amica.
“Ho parlato con l’abbadessa! Mi ha aperto il cuore! Mi ha fatto capire tutto! Ma ora non posso dirvi quello che ci siamo dette! Ho bisogno di conservare tutto nel mio cuore, come un segreto! Ma poi ve lo dirò! Non subito! Scusatemi, ma non posso! E’ troppo, troppo bello!”
“Va bene!” disse Vittoria scambiando con Giulia e Margaret un sorriso di compiacimento e di stupore.
In quel momento Don Franco suonò il fischietto per chiamare a raccolta il reparto. Gli scout uscirono dalle loro tende e si raccolsero tutti insieme nel prato.
“Ragazzi!” disse Don Franco. “Oggi è Venerdì Santo e dobbiamo fare una giornata di preghiera e di silenzio. E’ anche giorno di digiuno. Quindi ora chi vuole può prendere un po’ di latte o di caffè per la colazione, e possibilmente nient’altro. Chi poi riesce a non prendere niente, ancora meglio. Poi vi prego di mantenere il raccoglimento per tutta la giornata. Faremo anche il pranzo in silenzio e mangiando moderatamente. Alle quattro e mezzo ci sarà la funzione del Venerdì Santo in chiesa. Più tardi, dopo una cena molto leggera, faremo la via crucis nel giardino del monatero. Ora dunque prepariamoci spiritualmente alla celebrazione. Io sono nella mia tenda. Se qualcuno vuole parlare con me, sono a disposizione”.
Quando ebbe finito di parlare, fece un cenno di congedo e tutti si dispersero in silenzio per l’accampamento.
Francesca si avvicinò a Don Franco e gli chiese:
“Padre! E’ possibile parlare un po’ con lei?”
“Certamente!” rispose Don Franco. “Vieni!”
La condusse nella sua tenda e rimasero a lungo in colloquio.
Quando uscì dalla tenda di Don Franco, Francesca era più contenuta e raccolta, ma i suoi occhi avevano un’espressione di grande pace e felicità.
Il silenzio e il raccoglimento penitenziale del Venerdì Santo non le pesarono minimamente. Al contrario, le parve che quella fosse l’atmosfera più opportuna per ripensare a lungo con profonda gioia al segreto che aveva nel cuore.
Passò la giornata tra passeggiate nel bosco e lunghe soste di meditazione e di preghiera nel prato, nel giardino del monastero e nella chiesa delle suore.
Nel pomeriggio partecipò alla funzione del Venerdì Santo con grande commozione ed ebbe la gioia grandissima di accostarsi alla comunione insieme a tutti gli altri.
Vittoria, Margaret, Giulia e Emma – che era stata messa al corrente della trasformazione avvenuta nell’animo di Francesca – senza darlo a vedere osservavano con incredulo e gioioso stupore l’atteggiamento raccolto e la contenuta felicità della ragazza.
Dopo la via crucis tutti andarono a riposare in silenzio.
Il giorno dopo, al risveglio, per tutto il campo si respirava la sobria letizia del Sabato Santo.
Dopo colazione Francesca vide Vittoria e Margaret che si avviavano verso il monastero.
“Dove andate?” chiese.
“Andiamo a salutare l’abbadessa” rispose Vittoria.
“Posso venire con voi?”
“Certo!”
Le tre ragazze salirono il colle, attraversarono il giardino d’ingresso e suonarono alla porta del monastero.
Poco dopo si trovarono in parlatorio alla presenza dell’abbadessa.
“Allora, madre!” disse Vittoria. “Siamo venute a salutarla, e le abbiamo portato anche gli indirizi email di Dorothy e della Signora Baker”.
“Grazie, carissime!” rispose l’abbadessa. “Questi sono i recapiti del monastero” aggiunse porgendo loro un dépliant. “Ma datemi anche i vostri indirizzi!”
“Ecco, guardi: su questo foglio abbiamo scritto tutto. Questa sera da Roma ci metteremo in contatto con Oak Farm, poi le faremo sapere che cosa hanno detto. Ma non abbiamo dubbi che Dorothy e la Signora Baker saranno felicissime di mettersi in contatto con lei. Naturalmente informeremo anche Edith e i suoi genitori. Poi le faremo sapere”.
“Grazie!” esclamò l’abbadessa. “Sono proprio molto contenta di avervi conosciute e che mi abbiate offerto questa opportunità. Speriamo allora di rivederci presto”.
“Non dubiti!” esclamò Vittoria. “Non vedo l’ora di ritornare ad Acquafredda!”.
“Per me sarà un po’ più difficile” disse Margaret. “Dopo Pasqua torno in Inghilterra. Ma certamente non mi mancherà l’occasione di tornare a trovarla. Tanto più che…”
“Oh, senti!” l’interruppe Vittoria con finta impazienza. “Lascia perdere quei due! Parliamo di cose serie!”
L’abbadessa, vedendo che Margaret rideva, mentre nello stesso tempo dava una gomitata a Vittoria, chiese incuriosita:
“Ma che cosa stava dicendo?”
“Niente!” rispose Vittoria sorridendo maliziosa. “Soltanto che mia sorella e suo fratello stanno facendo pericolosi progetti matrimoniali. Ma quel povero Charles non sa proprio che cosa l’aspetta!”
L’abbadessa rise.
“Sei proprio cattiva!” disse.
“Ha detto la parola giusta!” esclamò Margaret. “Le ho già detto che, se continua così, non la guardo più in faccia”.
A questo punto tutte scoppiarono in una calorosa risata.
“Va bene!” disse infine l’abbadessa. “Allora siamo d’accordo che al più presto venite a trovarmi. E quanto al resto, mi viene ora un’idea: dite ai fidanzatini che assolutamente voglio che vengano a sposarsi nella nostra chiesa!”
“E va bene!” rispose Vittoria con un sospiro. “Se proprio deve essere!”
“Sei proprio impunita!” disse Margaret ridendo.
“Allora, ragazze!” concluse l’abbadessa. “Arrivederci e che Dio vi accompagni!”
“Arrivederci!” esclamarono Vittoria e Margaret.
“Scusate!” intervenne a questo punto Francesca. “Posso restare un momento sola con l’abbadessa?”
“Certo, cara!” disse l’abbadessa prendendola per mano. “Allora, aspetto vostre notizie!” aggiunse poi dando un ultimo saluto a Vittoria e Margaret che si avviavano verso l’uscita.
Quando rimase sola con Francesca, le chiese:
“Allora, va tutto bene?”
“Oh, sì, madre! Divinamente!”
“Ma ora che torni a Roma, cerca di non dissiparti troppo. Le grazie del Signore bisogna saperle conservare. Ci sono mille pericoli di perderle nella vita di tutti i giorni”.
“Certo, madre! Non dubiti! Ma devo farle una domanda”.
“Di’ pure!”
Francesca arrossì e, dopo un attimo di esitazione, disse con grande emozione:
“Madre! Se divento benedettina, posso prendere il nome di Suor Valpurga?”
L’abbadessa spalancò gli occhi dallo stupore. Poi rispose:
“Certo, cara! Ma veramente vuoi diventare benedettina?”
“Oh, madre! Non vedo l’ora!”
“Ma prima devi finire il liceo, e se ora perdi anche l’anno…”
“No, madre!” esclamò Francesca con voce decisa. “Glielo prometto: non lo perderò l’anno!”

APPENDICE

La mia riscoperta dello Spirito Santo
di Suor Lioba (Virginia) Fenoglio

(Articolo pubblicato sulla “Rivista diocesana torinese” il 30 maggio 2004)

Chi, come me, ha vissuto la sua adolescenza a Torino negli anni di piombo, certamente ricorda il clima angoscioso in cui è cesciuta la nostra generazione. Non voglio dire che gli adolescenti di oggi siano più fortunati, ma non posso non osservare una differenza fondamentale: allora la vita si prendeva tremendamente sul serio, mentre i giovani di oggi per lo più mostrano di essere disincantati e di non sentire su di loro il peso insostenibile di un dovere da compiere ad ogni costo.
Per noi era tutto diverso. La maggior parte di noi veniva da una seria educazione cattolica e, sebbene quasi tutti avessimo abbandonato la fede alle soglie dell’adolescenza, ci era rimasta impressa nell’anima l’ansia di dover pagare, in un modo o nell’altro, un debito inesorabile verso la vita.
Ma quale fosse questo debito non ce lo insegnavano più i preti o le nostre famiglie di origine, bensì il clima che si respirava in quegli anni. Nelle scuole e all’università il marxismo furoreggiava, praticamente incontrastato, e, per quanto i politici e i docenti si sforzassero di prendere le distanze dagli attentati degli extraparlamentari di estrema sinistra. che in quegli anni stavano sconvolgendo la società, nella nostra giovanile coerenza non potevamo non sentire dentro di noi che le loro dichiarazioni erano false. Marx aveva detto con tutta chiarezza che c’è un solo mezzo per abolire l’infame ordine presente e per instaurare il nuovo: il terrorismo rivoluzionario. Dunque se il sangue scorreva, ciò era perché doveva scorrere. Potevamo sentirci angosciati alla vista di persone innocue uccise dalla violenza dei terroristi, ma in fondo sentivamo che era nostro rigoroso dovere stringere i denti e approvare, o, se possibile collaborare.
Poteva tutto questo avvenire senza una profonda angoscia, senza notte insonni o affollate da incubi paurosi?
Ognuno di noi ha avuto la sua storia, ognuno, che sia passato per quel tunnel allucinante, ne è uscito per una via diversa. Su molti di noi ha gravato, almeno per un certo tempo, l’ombra del suicidio. Anche su di me, ed è stata un’ombra terribile!
Fu un mio professore che, senza saperlo, mi aprì la strada per sfuggire a quell’ombra che mi ossessionava.
Veramente il suo intento era soltanto di mostrare a noi studenti come fosse vasta la diffusione del marxismo. Così, tra le altre cose, si soffermò sulla vicenda filosofica di Benedetto Croce, sottolinenando come il filosofo, deluso dall’hegelimo accademico che dominava al suo tempo nelle università, proprio attraverso l’incontro con Marx fosse stato portato a riscoprire la vitalità del pensiero di Hegel. Infatti Marx aveva riportato la filosofia dalle elucubrazioni astratte alla concreta vita del mondo. Se, come affermava Hegel, il pensiero è storia e la storia è pensiero, dunque la filosofia deve essere una cosa vissuta e non soltanto pensata!
Ma, mentre ascoltavo il professore, a un certo punto incominciai ad avvertire una perplessità. Mi chiedevo: perché Croce, pur riconoscendo il suo debito verso Marx, poi non lo aveva seguito, e, anzi, lo aveva criticato? E la risposta mi era suggerita dalla parola su cui il nostro docente ritornava ripetutamente per inquadrare la filosofia di Croce: lo Spirito! Se Marx aveva cercato di eliminare lo Spirito dall’hegelismo, Croce, al contrario, lo aveva riabilitato, delimitando la sfera economica, nella quale Marx risolveva tutto, nel suo ristretto ambito.
Chi aveva ragione? Mi ricordo che, alla fine di quella lezione, che doveva segnare in modo così decisivo la mia vita, istintivamente rifuggii dal chiedere spiegazioni al professore. Sentivo, infatti, che da lui non avrei avuto la luce che in quel momento desideravo. Dovevo cercarla da sola! La parola “Spirito” aveva acceso una specie di fiamma nel mio cuore, e sapevo già in partenza che il nostro docente avrebbe fatto di tutto per spegnerla. Non volevo che me la spegnessero. Se mai io stessa lo avrei fatto, se la mia coscienza me lo avesse imposto. Ma ciò soltanto dopo una riflessione il più possibile approfondita.
“Lo Spirito!” mi ripetevo con una sorta di brivido, mentre, dopo la lezione, mi avviavo come trasognata verso la biblioteca della facoltà. “Lo Spirito! Marx ha avuto quasi paura dello Spirito e ha cercato di eliminarlo riducendo tutto all’attività economica. Ma che cos’è, poi, l’attività economica? Non c’è anche lì lo Spirito? E Marx stesso a volte non si tradisce e non parla dello Spirito? Non ha ragione, allora, Croce a distinguere ciò che è economico e particolare da ciò che è morale, spirituale e universale?”
Agitata da questi pensieri, arrivai in biblioteca e mi immersi nella lettura di Benedetto Croce. Da quella lettura una cosa mi appariva con certezza: in Hegel lo Spirito dominava in modo assoluto e Croce aveva avuto il merito di riabilitarlo, dopo che Marx aveva voluto abolirlo.
Ma a questo punto il mio pensiero si confondeva. Se la filosofia è storia vissuta e se tutto è storia, come possiamo pensare che esistano delle categorie attraverso le quali si attua la distinzione tra ciò che è particolare e ciò che è universale? Queste categorie pretendono di interpretare la storia, e quindi sono in qualche modo al di sopra della storia. Dunque non tutto è storia! Vi è qualche cosa che la trascende! E che cosa, se non lo Spirito!?
Da quel giorno le mie notti insonni continuarono, ma con preoccupazioni molto diverse da prima! Ora la mia ansietà era dovuta alla necessità di risolvere la controversia tra Marx e Croce. Chi aveva ragione? Bisognava farla finita con lo Spirito e ridurre tutto ad economia – e così l’identificazione della filosofia con la storia risultava perfetta – ovvero bisognava riabilitare lo Spirito, creando, però, il problema di come giustificarlo nella perfetta coincidenza di storia e filosofia?
Pensai, allora, che l’unica cosa da fare fosse di risalire allo stesso Hegel. E qui mi aspettava una sorpresa: Hegel si era ispirato, per il suo concetto dello Spirito, alla teologia cristiana. Stranamente questo aspetto del suo pensiero in precedenza mi era sfuggito, o forse i miei professori lo avevano volutamente trascurato. Ma il fatto era certo: Hegel aveva voluto trasfondere la teologia trinitaria cristiana nella sua filosofia razionalistica. Cos’era, infatti, il Dio che si faceva storia se non il Dio incarnato in Cristo della teologia cristiana? E cos’era lo Spirito che unificava tempi e popoli, se non lo Spirito Santo disceso sulla chiesa primitiva?
Certamente Hegel aveva voluto eliminare ogni concetto di un Dio trascendete e far vivere lo Spirito soltanto nel suo manifestarsi nella storia. Ma vi era riuscito? Da una parte Marx aveva cercato di ridurre tutto al sensibile e all’economico, eliminando così lo Spirito, e dall’altra Croce aveva voluto riabilitare lo Spirito, mettendo, però, in crisi l’idea di una storia in cui tutto si risolve. Non era questo un segno che la riduzione dello Spirito nel solo ambito delle sue manifestazioni storiche operata da Hegel in realtà non era un concetto razionale, bensì soltanto un’immaginazione?
Hegel aveva asserito che ciò che la religione presenta in forma rappresentativa e immaginativa, la filosofia lo pensa in forma razionale. Ma allora io mi convinsi del contrario: è la filosofia di Hegel che rappresenta in modo immaginativo ciò che la religione pensa in modo razionale! Lo Spirito, se è tale, non può non trascendere la storia!
Eppure rimane vero che Hegel e Marx hanno riportato la filosofia e lo Spirito nella vita vissuta!
Ero veramente sconvolta! Mi sembrava di rimmettere insieme i pezzi di un puzzle che per errore erano stati distaccati e lasciati deperire l’uno separato dall’altro. Certo! Sì! La filosofia deve essere storia vissuta, ma soltanto lo Spirito che la trascende può darle un senso!
Avevo venticinque anni quando, in seguito a questo rivolgimento interiore, ricominciai a frequentare la chiesa. E nella chiesa ora cercavo lo Spirito, non, però, lo Spirito immaginario di Hegel, ma lo Spirito vero e vivente, lo Spirito Santo!
“Perché” mi domandavo con angoscia, “la chiesa lo ha chiuso tra quattro mura e ha lasciato a Hegel e a Marx il compito di portarlo tra la gente, ma privandolo della sua realtà?!”
Mi fermavo in chiesa a lungo a pregare e a interrogarmi su questo problema cruciale. Avrei voluto fare chissà che cosa per ricucire questo strappo tanto drammatico! Ma cosa potevo fare?!
Un giorni entrai nella piccola chiesa delle Suore Cappuccine di Moncalieri – abitavo in quella zona – e mi fermai a lungo a pregare presso l’urna di Suor Consolata, una suora morta nel 1946 in concetto di santità. E lì a poco a poco un pensiero nuovo mi colpì.
Come si spiega – mi dicevo – che, dopo più di cinquant’anni, l’urna di Suor Consolata sia ancora qui, a disposizione di tutti e che la devozione verso di lei si estenda sempre più, in tutti i continenti? Tutte le barriere, del tempo e dello spazio, sono state abbattute! E non è questa, appunto, l’opera della Spirito Santo, che tutto unifica e riconduce a Dio?
Ma a questo punto sentii che mi ritornavano, in una forma nuova, i concetti che avevo acquisito in modo indelebile dal marxismo. In che cosa Marx vedeva l’essenza del male, se non in ciò che, a suo giudizio, sottraeva l’uomo dall’universale movimento “economico” della storia – cioè, come ora mi appariva chiaro, dallo Spirito? La famiglia “privata”, la proprietà “privata”, la libertà “privata”. Questi tre aspetti della società “borghese” ai suoi occhi costituivano il “nemico”, da abbattere con il terrorismo rivoluzionario.
Non c’era un barlume di verità in questa sua denuncia? Ma se c’era, esso poteva essere messo in piena luce soltanto se si ribaltava la sua concezione materialistica e si metteva in chiaro che l’universale movimento della storia non si fonda sull’economia, bensì sullo Spirito Santo!
Allora mi sembrò quasi che una luce abbagliante emanasse dall’urna di Suor Consolata: se quell’urna aveva infranto le barriere del tempo e dello spazio, ciò era perché, attraverso i voti religiosi, Suor Consolata aveva trasceso le tre categorie del privato, cioè la famiglia, grazie al voto di castità, la proprietà, grazie al voto di povertà, e la libertà, grazie al voto di obbedienza. Infatti, famiglia, proprietà e libertà, se si racchiudono in una dimensione strettamente privata, dividono e sottraggono allo Spirito universale la vita degli individui. Allora la vita intima delle famiglie rimane confinata nello spazio e nel tempo, le proprietà si succedono e si distruggono l’una dopo l’altra, le libere scelte di ogni individuo riguardano soltanto lui e la sua breve esistenza terrena. Così i germi che ogni vita umana dovrebbe seminare nel terreno della storia rimangono in qualche modo sterili: non si dà loro il tempo e lo spazio per far maturare i frutti che dovrebbero portare
Non è così nella vita religiosa! I voti monastici, infatti, eliminano ogni barriera di spazio e di tempo: i religiosi non si dividono dagli altri con una loro famiglia, non isolano quello che hanno seminato nella loro vita in una proprietà privata, che poi lo inghiottirà con la propria scomparsa, non trattengono per sé soli la propria libertà. Per questo essi sono il modello e la luce di salvezza che sola può redimere dalla corruzione denunciata da Marx le tre dimensioni “privare” della società “borghese”.
Marx non ha visto che la famiglia, la proprietà e la libertà sono i beni più grandi che Dio ha donato agli uomini. Egli ha visto, però, con lucidità i gravissimi pericoli che il loro abuso fatalmente comporta. Ora, soltanto la luce che scaturisce dai voti religiosi può purificare questi grandi doni di Dio e riportarli dalla meschinità dello spirito “privato” al respiro universale dcllo Spirito Santo.
Quell’anno volli celebrare con particolare devozione lo Spirito Santo e per la festa di Pentecoste andai al Santuario della Consolata, Patrona di Torino. Era moltissimo tempo che non lo frequentavo e lo trovai completamente trasfigurato dopo i restauri degli ultimi anni.
Il gorno della festa il santuario era una splendore di luci, di arte, di ricordi storici, di canti, di fiori, di folle di fedeli in preghiera. Mi inginocchiai in mezzo alla folla devota e improvvisamente fui presa da un’emozione inesprimibile. Veramente sentivo lo Spirito Santo dentro di me!
Dopo la mia conversione lo spettro della disperazione e del suicidio aveva lasciato il posto ad una gioia incontenibile. e per molto tempo avevo sentito il desiderio vivissimo della felicità familiare e della maternità, vissute nella luce di Cristo. Ma ora sentivo che lo Spirito Santo mi indicava un altro destino, e, paradossalmente, era stato proprio il mio ripensamento del marxismo a svelarmelo. Sì! Ogni barriera doveva essere infranta: attraverso la vita religiosa avevo la missione di mostrare a tutti che i tre santi voti monastici non sono in realtà una rinuncia, ma sono la strada privilegiata, anche per chi non li segue fino in fondo, per raggiungere il vero amore, il vero dominio dell’uomo sul mondo, la vera libertà, e perché ciò che abbiamo seminato non vada perduto, ma abbia il tempo e il modo di portare i suoi frutti.
Allora, davanti alla Madonna Consolata e Consolatrice, nella luce sfolgorante della Pentecoste, feci a Dio la mia irrevocabile promessa di donarmi totalmente a lui in una vita di perpetua consacrazione.