È veramente destinato al fallimento un partito sorto a difesa dei principi non negoziabili?

di Emanuele d’Agapiti

«Anzi vi sono taluni che insinuano essere sapienza cristiana il tornare alla cosiddetta modestia delle aspirazioni nelle catacombe. Sarebbe, invece, saggio tornare alla ispirata sapienza dell’Apostolo Paolo, il quale, scrivendo alla comunità di Corinto, con ‘ardimento degno della sua grande anima, ma fondato sul pieno dominio di Dio, apriva tutte le strade all’azione dei cristiani: “Tutte le cose sono vostre (…), sia il mondo, sia la vita, sia la morte, siano le cose presenti, siano le future: poichè tutto è vostro. Voi poi siete di Cristo: e Cristo di Dio” (1 Cor. 3, 22). Il cristiano che non osasse far propria questa pienezza di libertà, negherebbe implicitamente a Cristo stesso la prerogativa di quel “potere con cui Egli può altresì assoggettare a sè tutte le cose” (Phil. 3, 21). Dovrebbe anzi stimare un’onta il lasciarsi superare dai nemici di Dio per una viva laboriosità ed intraprendenza, anche con spirito di sacrificio. Non si danno terreni recinti nè direzioni vietate all’azione del cristiano: nessun campo di vita, nessuna istituzione, nessun esercizio di potere possono essere inibiti ai cooperatori di Dio per sostenere l’ordine divino e l’armonia nel mondo».

Pio XII, ultimo radiomessaggio natalizio (22.12.1957)

A fermarsi alla prima apparenza delle cose, si dovrebbe dar ragione “in toto” a quanti vedono nella società attuale una situazione culturale ormai irreversibile, nella quale il primato assoluto di una laicità onnipervasiva non lascia un posto che possa essere pensato come “direttivo” ai valori umani e cristiani che trovano espressione nella dottrina morale e sociale della Chiesa. Che in teoria la sostanza di questi valori non sia legata alla fede cattolica, non intaccherebbe minimamente il fatto assodato che, per il sentire comune, essi sono un patrimonio legato ad una sfera religiosa che non può più ormai pretendere a ciò che, con un termine gramsciano, potremmo chiamare “egemonia”.
Data questa situazione, bisognerebbe trarre la conclusione che la salvaguardia dei valori morali e sociali legati ad una visione cristiana tradizionale della vita potrà validamente attuarsi soltanto in ambiti privati o genericamente culturali, che solo di riflesso potranno influenzare indirettamente l’azione di forze politiche, le quali, per un’ineluttabilità di cui sarebbe ormai necessario prendere atto, non possono non assumere i caratteri di una laicità impermeabile ad ogni richiamo identitario a valori superiori.
Ma ad una riflessione più approfondita questa diffusa convinzione risulta assai meno solida di quanto non appaia a prima vista. Ciò che, infatti, sfugge ad uno sguardo superficiale è il terreno di provvisorietà e di assoluta instabilità su cui si muovono, come su sabbie mobili, le classi politiche che attualmente sembrano dominare la scena politica, nazionale e internazionale.
Da cosa deriva questa situazione di fondamentale incertezza e mancanza di punti di riferimento? Per rispondere dobbiamo richiamare la storia dell’ultimo secolo.
Fino a non molti decenni fa i parlamenti degli stati democratici esercitavano la loro azione decisionale in ambiti ben determinati, riguardanti soprattutto l’amministrazione economica delle nazioni. Vi era un ambito che rimaneva sullo sfondo, quasi fosse il fondamento indiscutibile della vita dei popoli civili che i legislatori presupponevano senza osare invaderlo con i loro decreti.
Per comprendere questo punto fondamentale, possiamo ricordare le parole che il presidente Franklin Delano Roosevelt rivolse al popolo degli Stati Uniti per convincerlo dell’opportunità di entrare in guerra:
«Arriva un momento negli affari pubblici in cui gli uomini si devono preparare a difendere non solo le loro case, ma i princìpi di fede e umanità sui quali sono fondate le loro chiese, i loro governi e la loro stessa civilizzazione. La difesa della religione, della democrazia e della buona fede tra le nazioni è una sola lotta. Per salvare una cosa dobbiamo prepararci a salvarle tutte».
Dietro queste parole appare la convinzione incrollabile che la democrazia si fonda su ben determinati principi di religione e di umanità.
Ora chiediamoci: contro chi, secondo Roosevelt, questi prncipi dovevano essere difesi? La risposta ovvia: contro i nazisti, sarebbe certamente esatta, ma non esauriente. Bisognerebbe spiegare meglio: contro i moderni totalitarismi, che hanno invaso, con un intervento del potere statale a tutto campo, ambiti sacri che non avrebbero dovuto osare toccare.
Il fatto che la guerra fosse rivolta contro la Germania nazista, non deve far dimenticare che il primo di questi totalitarismi moderni era stato quello della Russia comunista.
Osserviamo che la parola “totalitarismo” risuona sinistramente anche negli scritti di Antonio Gramsci, e ciò crea una certa inquietudine. Infatti, senza negare i meriti del pensatore sardo, non si può negare che il suo progetto culturale mirava ad estendere il totalitarismo comunista alle nazioni occidentali, se pure in una forma nuova, adatta a popoli di più alta civiltà.
Questo totalitarismo, nel programma di Gramsci, non avrebbe assunto i caratteri dittatoriali della Russia sovietica, ma avrebbe mirato a sostituire alla cultura e al senso comune ereditati dall’antica civiltà cristiana dei popoli occidentali una nuova cultura, un nuovo senso comune, in cui ogni riferimento ad una realtà trascendente doveva scomparire e potesse essere così instaurato il regno del più assoluto immanentismo.
Di fatto Gramsci, nei suoi scritti e nella sua vita, si mostra fondamentalmente anch’egli erede di quella cultura cristiana che intendeva sostituire con la nuova cultura, e perciò possiamo ben credere che non avesse piena coscienza delle conseguenze che avrebbe provocato il suo progetto, una volta attuato con piena coerenza, e che le avrebbe, anzi, rifiutate – e basterebbe ricordare il suo sdegno per “l’acquisto dei bambini”, di cui già al suo tempo si parlava. Ma esiste una sorta di ineluttabile consequenzialità delle idee: una volta che esse si sono messe in movimento, per una rigorosa coerenza logica, producono effetti che spesso chi le aveva formulate non aveva previsto.
L’influenza del gramscismo, e di altre dottrine affini, nel secondo dopoguerra ha portato, all’inizio con discrezione e poi con sempre maggiore aggressività, al dissolversi di quel retroterra culturale che, come abbiamo visto dalle parole di Roosevelt, costituiva il sottofondo presupposto, se pure spesso disatteso, da ogni azione, anche politica, dei popoli occidentali.
È importante richiamare, in questo contesto, il ruolo di Gramsci, perché, come si è detto, egli ha parlato esplicitamente, nel suo progetto culturale, di “totalitarismo”, per di più ispirato, se pure con sostanziali correzioni, all’esempio sovietico. Questa circostanza ci invita a rintracciare una sorta di filo conduttore, nella storia degli ultimi cent’anni, che riunisce, in un singolare ma reale rapporto di discendenza, il totalitarimo sovietico con quello nazista – che del primo fu una sorta di contraccolpo – e con quello più sottile diffuso poi nelle nazioni occidentali.
In questa sua ultima versione il totalitarismo, non meno dei suoi predecessori, ha mirato ad attingere quegli ambiti della vita umana che tradizionalmente la politica aveva lasciato fuori della sua azione, considerandoli come un presupposto in qualche modo “sacro” e, come tale, sottratto al potere statale, e a sottoporli ad una revisione integrale, dettata da una sempre più diffusa concezione materialista del mondo e della vita umana e dalla pretesa di far intervenire, per renderla concretamente operante, il potere statale.
I nostri parlamenti, messi improvvisamente di fronte ad un compito che tradizionalmente non era il loro e per il quale non avevano ricevuto alcun mandato dagli elettori, e perciò del tutto impreparati, sono stati facile preda di “lobby” internazionali, interessate ad imporre radicali cambiamenti nei costumi dei popoli. Così, attraverso un abile uso della dialettica parlamentare, nel momento storico cruciale in cui i politici era presi da una sorta di verigine tra una tradizione che andava scomparendo e un’innovazione che premeva con impazienza, senza tollerare ostacoli e lasciare il tempo alla riflessione, la nuova forma di totalitarismo culturale ha fatto breccia nelle nazioni occidentali, lasciando, però, i politici e i popoli in una sorta di angosciosa ansietà. Da una parte principi fino a poco tempo fa considerati intoccabili – come la sacralità della vita concepita e della vita inferma e morente, la specificità della natura maschile e femminile e la loro necessaria complementarità nel matrimonio, il rispetto assoluto del mistero dell’umana generazione, la necessità della figura materna e paterna per lo sviluppo dei figli, i diritti della famiglia all’educazione della prole, la visione morale e non edonistica della sessualità – sembrano essere stati scalzati via dalla legislazione, prima che dalla coscienza dei popoli, dall’altra, tuttavia, se pure non sempre in modo consapevole, gli animi si sono trovati angosciati e sconvolti al pensiero che la dilapidazione di un patrimonio di civiltà e di religione così antico e venerabile sia avvenuta in un tempo così breve, con modalità che troppo spesso sono sfuggite al controllo e alla stessa coscienza delle masse e con conseguenze ancora avvolte nel mistero, ma che già sembrano assumere inquietanti tratti demoniaci.
In questa situazione, in cui cresce rapidamente la sensazione di essere su un fondo ignoto di sabbie mobili, la credibilità di una classe politica che ha mostrato di essere stata, e di essere ancora, impreparata al ruolo che le è stato improvvisamente imposto di rivedere i fondamenti stessi dell’esistenza, e che per la sua impreparazione ha in qualche modo demandato il relativo compito a forze inaffidabili, diminuisce di giorno in giorno.
Così, nell’atmosfera di instabilità e di imprevedibilità dei nostri giorni, ci si può chiedere se il discorso tanto sbandierato di dover affidare ancora le sorti politiche delle nostre nazioni a quei partiti di stampo tradizionale che non hanno ancora coscienza del rischio che stiamo correndo, di svendere ciò che è essenziale per concentrarsi esclusivamente su ciò che è secondario, e che perciò escludono per sistema dai loro programmi ogni seria considerazone dei principi fondamentali di religione e di umanità, sia veramente realistico e a lungo andare vincente.
Non si potrebbe, invece, verificare la sorpresa che, tra gli inaspettati sommovimenti dei popoli in angoscia, si risvegli improvvisamente la coscienza che il problema politico più urgente di oggi è la creazione e il rafforzamento di una forza politica che faccia della riscoperta e della riaffermazione dei prinici religiosi e umani del vivere civile, così declassati nella recentissima operazione politica e culturale, tanto rapida quanto inconsistente, il centro irrinunciabile del proprio programma?