La fraternità umana e il mistero di Cristo

Considerazioni sull’editoriale del n. 3/2020 della rivista di spiritualità “La Scala”

di Don Massimo Lapponi

Il discorso sulla “fratellanza universale” che troviamo nell’editoriale della rivista “La Scala” merita alcune considerazioni ed approfondimenti.

L’editoriale osserva che l’idea cristiana della fraternità fu in qualche modo “secolarizzata” soprattutto al tempo dell’Illuminismo.

Vorrei partire proprio da questo dato storico, perché abbiamo un testimone autorevole, al di sopra di ogno sospetto, che può introdurci a comprendere meglio l’evoluzione spirituale di quel tempo. Parlo del Cardinale Giacinto Sigismondo Gerdil (1718-1802), attualmente poco conosciuto, ma personalità di primo piano della Chiesa del Settecento, sul quale ho avuto il privilegio di fare uno studio approfondito.

Nei suoi scritti, di grandissimo interesse ancora oggi, il Gerdil sottolinea con molta chiarezza una contraddizione insanabile nel modo in cui i pensatori più in voga dell’Illuminismo intendevano promuovere l’umana fraternità. Egli non parte dalla considerazione teologica che la vera fraternità trova il suo fondamento in Cristo. L’aspetto più propriamente cristiano del problema verrà dopo. Il punto che egli soprattutto sottolinea è che gli illuministi pretendono di diffondere la fraternità umana dopo aver scalzato le sue fondamenta storiche.

Una forte tendenza dell’Illuminismo era volta a criticare come artificiali e corruttrici dell’uomo “naturale” tutte le istituzioni sociali della civiltà, a partire dagli ordinamenti politici e giuridici fino a giungere alla stessa famiglia. Ai loro occhi l’uomo, per natura libero e indipendente, era stato imprigionato negli ordinamentio familiari e sociali, dai quali doveva liberarsi.

Il Gerdil si domanda: come è possibile parlare di fraternità, addirittura tra individui lontanissimi per spazio e per cultura, quando si nega la comunione umana tra fratelli dello stesso sangue? Non così hanno ragionato i saggi dell’antichità. Insegna, infatti, Aristotele che sono state le famiglie a unire insieme gli uomini e a creare un vincolo, prima di necessità e poi di affezione, che lentamente si è sempre più ampliato, fino a ragiungere ciò che Cicerone chiama “caritas generis humani”.

Dunque all’estremismo illuminista Gerdil, almeno in prima istanza, non oppone il Vangelo, bensì Aristotele e Cicerone – che egli considerava il più grande moralista dell’antichità.

Proprio su questa base egli poi dimostrerà la sublime convergenza del Vangelo verso le migliori aspirazioni della natura umana. Infatti, opponendosi a Hobbes, il Gerdil rivendica la vocazione dell’uomo alla comunione con i suoi simili, la quale dimostra sperimentalmente l’essenza non materiale, bensì spirituale dell’uomo. Ma questa sua essenza, secondo una prospettiva che egli eredita soprattutto da Aristotele, non può manifestarsi se non attraverso un processo storico che si realizza gradualmente nello sviluppo dei vincoli familiari e sociali.

Dunque alle affermazioni astratte di “fraternità universale”, già fatte a suo tempo dall’Illuminismo, il Gerdil risponde rilevando con forza la contraddizione che esse contengono, tra una sorta di primitivismo, che vorrebbe liberare l’uomo “naturale” dai vincoli familiari e sociali, e la pretesa utopica che l’uomo così “liberato” debba sentire un’universale fraternità verso tutti i suoi simili. Non c’è dubbio che un’analoga contraddizione egli avvertirebbe nelle moderne istanze, da una parte antifamiliari e anarchiche, e dall’altra inneggianti alla “liberté, fraternité, égalité”.

Ovviamente il Gerdil non ignora la novità del Vangelo, ma la coniuga con un’aspirazione già insita nell’uomo. In una pagina della sua opera più conosciuta, il cosiddetto “Anti-Emilio”, egli osserva che sarebbe interesse dei governi, a cui dovrebbe stare a cuore la cordiale unione dei sudditi tra loro, favorire la religione e l’insegnamento religioso nelle scuole. Infatti, quale più grande stimolo alla carità fraterna di una dottrina che pone l’amore del prossimo quale esigenza necessaria per la salvezza eterna? E quale immenso bene potrebbe apportare all’umana società un maestro che favorisse, con il supporto della religione, un clima di reciproca carità e amicizia sincera tra i suoi alunni?

A me sembra che questo modo di affrontare le moderne utopie globaliste sia preferibile ad un approccio sostanzialmente teologico, che rischia di porsi anch’esso su un piano eccessivamente astratto.

Ma vorrei aggiungere che sarebbe utilissimo, nel momento attuale, integrare la prospettiva gerdiliana con una visione teologica nello stesso tempo rinnovata rispetto a quella classica ed alternativa rispetto alle teologie “progressiste”.

E vorrei premettere un’osservazione pratica che ritengo fondamentale. Senza entrare nel merito del giudizio sulle apparizioni di Medjugorie – riservato esclusivamente alla legittima autorità ecclesiastica – vi è un’affermazione riportata da dette apparizioni che merita di essere presa in seria considerazione. Essa recita: “Pregate per i vostri pastori (…) perché (…) senza la loro guida ed il rafforzamento che vi viene per mezzo della benedizione non potete andare avanti”.

Non c’è dubbio che questo “messaggio” indichi una realtà concreta che non dobbiamo in alcun modo sottovalutare. Per quanto possiamo operare nell’uno o nell’altro ambito ecclesiastico, come sacerdoti, religiosi o laici impegnati, se manca il sano contributo dei legittimi pastori tutto rimane ad uno stato di sostanziale incompletezza. Da ciò deriva il dovere di lavorare perché i pastori possano avere sempre più luce per adempiere convenientemente il loro mandato. Ora non c’è dubbio che uno dei modi più efficaci per ottenere questo sia di offrire loro una chiara e convincente visione teologica, che orienti efficacemente i credenti in questo momento di estrema confusione. Non fu una situazione analoga quella in cui operò, con tanto successo, San Tommaso d’Aquino? Ma bisogna aggiugere che una visione teologica tanto più avrà la possibilità di imporsi, quanto più essa divenga non una proposta scolastica astratta, bensì l’anima condivisa dell’azione di un ampio numero di fedeli, sacerdoti e religiosi, impeganti in una comune opera di rinnovamento della vita cristiana.

Venendo dunque alla prspettiva teologica a cui vorrei ora accennare – e che ho ampiamente sviluppato in altri scritti – conviene partire dal testo stesso dell’editoriale della rivista “La Scala”.

Vi si legge:

Secondo il linguaggio del Nuovo Testamento, fratelli in senso vero e proprio lo si può essere solo se prima si rinasce come figli di Dio, diventando capaci di chiamarlo Padre, come Gesù. È perciò importante comprendere che, secondo il linguaggio neotestamentario, che è il linguaggio della fede cristiana, gli uomini non sono considerati figli di Dio, e dunque fratelli fra di loro, per nascita, ma per adozione, attraverso l’inserimento in Cristo. Come scrive S. Paolo: «voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!» (Rm 8,15). Lo stesso concetto viene così ribadito con altri termini: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5).

Sotto questa luce si può comprendere perché nella lingua della fede cristiana non è usuale affermare che tutti gli uomini sono figli di Dio.

Per non smarrire o annacquare questa originalità, che è un dono dello Spirito Santo, forse dovrebbero essere più attenti nell’usare il termine fratellanza universale o affermare che tutti gli uomini nascono già come figli di Dio. Certo, in senso metaforico, come si è già accennato, questo può anche dirsi talvolta.

Condivido pienamente la preoccupazione dell’editoriale che, usando indiscriminatamente l’espressione “figli di Dio” per tutto gli uomini, si rischia di annacquare l’originalità della figliolanza battesimale. Credo, tuttavia, che, proprio riferendosi a testi importanti del Nuovo Testamento, si possa ritrovare il senso non solo metaforico dell’espressione “figli di Dio” riferita a tutti gli uomini, senza per questo diminuire l’originalità della figliolanza fondata nella rinascita del battesimo cristiano. Vedremo, anzi, che nella prospettiva teologica che qui viene accennata – e che si può trovare ampiamente sviluppata in altri interventi a cui farò riferimento – l’affermazione della “fraternità universale”, opportunamente inquadrata e quindi non presentata in modo indiscriminato, farà ancora maggiormente risaltare la centralità del mistero di Cristo.

Vorrei riportare due testi del Nuovo Testamento, uno dei quali, in paricolare, potrebbe aprire la strada per una visione teologica totalmente rinnovata e immensamente feconda.

Negli Atti degli Apostoli si legge:

«Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: “Poiché di lui stirpe noi siamo”. Essendo noi dunque stirpe di Dio (…)» (At 17, 24-29).

È interessate non solo l’affermazione che noi, i quanto uomini, siamo “stirpe di Dio”, ma anche il fatto che la medesima viene ripresa da un poeta pagano, che, ovviamente riflette una concezione stoica e in qualche modo panteistica. È, in ogni caso, importante sottolineare che al concetto di creazione, per quanto riguarda l’uomo, si preferisce, in questo testo, il concetto di generazione. Certamente non si tratta di generazione in senso proprio, e tuttavia il concetto, in qualsiasi modo lo si voglia intendere – gli esegeti danno diverse interpretazioni – aggiunge qualche cosa al nudo concetto di “creazione”.

Credo che l’altro testo del Nuovo Testamento a cui ho accennato possa suggerire, su questo punto, prospettive di estremo interesse.

Nel terzo capitolo del Vangelo di Luca troviamo un testo che non ha attirato molto l’attenzione, se non per confrontarlo con un analogo testo di Matteo: la geneaolgia di Cristo – Lc 3, 23-38. Diversamente da Matteo, Luca non discende dagi antenati fino a Cristo, ma da Cristo risale indietro: «Gesù (…) era figlio, come si credeva, di Giuseppe, figlio di Eli (…)» (Lc 3, 23), e, dopo aver enumerato tutte le generazioni, conclude: «figlio di Adamo, figlio di Dio» (Lc 3, 38).

Chi è indicato come «figlio di Dio», Cristo o Adamo? Mi sembra che si possa rispondere: ambedue. In questo testo Cristo è presentato come figlio di Dio non perché generato per opera dello Spirito Santo, come avveniva nel racconto dell’annunciazione, bensì perché discendente di Adamo, che è detto «figlio di Dio» sia perché derivato direttamente da Dio, sia perché da lui doveva discendere il vero Figlio di Dio.

Questo testo suggerisce che nella stirpe umana fin dall’origine fosse presente una sorta di “seme divino”, in quanto la «stirpe di Dio», riflettendo la generazione eterna del Verbo Creatore, era destinata a generare, nella pienezza dei tempi, lo stesso Figlio eterno del Padre.

Questa visione sconvolge la tradizionale dottrina, secondo la quale l’incarnazione avrebbe avuto quale causa propria la redenzione dal peccato, ma supera immensamente anche la dottrina scotista – che del resto non ha goduto molto favore nella catechesi ordinaria – legando inscindibilmente la generazione umana alla generazione divina, non soltato perché riflesso della generazione trinitaria, ma anche perché premessa e promessa sostanziale dell’incarnazione.

Secondo questa prospettiva – che è stata ampiamente sviluppata in un saggio a cui si può accedere tramite il seguente link: https://massimolapponi.wordpress.com/2139-2/ – mentre da una parte appare del tutto legittimo parlare di figliolanza divina e di fraternità umana sul fodamento della creazione – con la precauzione di evitare, seguendo la lezione del realismo aristotelico-gerdiliano, l’astrattismo illuminista e neoilluminista – nello stesso tempo viene riaffermato, senza alcun fraintendimento, il principio dogmatico che questa figliolanza e fraternità trova il suo sostanziale fondamento e la sua perfetta realizzazione nel mistero dell’incarnazione e della redenzione di Cristo.

Mi auguro che questa visione sapienziale, col rinnovamento teologico che essa promuove, rispondendo in modo realmente adeguato alle istanze del nostro tempo, possa costituire la base di una convergenza di pastori, teologi, catechisti e fedeli per un risveglio cristiano, nel pensiero e nella vita del popolo di Dio.