Lo Sri Lanka, la musica e la missione benedettina. Spunti di riflessione

(pubblicato su “Il legno storto” il 30.1.2013)

1. Lo Sri Lanka e la musica: un aspetto inquietante

Ormai alla vigilia del mio rientro in Italia – anche se temporaneo – dallo Sri Lanka, mi sembra opportuno fare qualche osservazione su quello che, a mio parere, è uno dei problemi principali di questo paese: il problema della musica.
Potrà sembrare strano che dia tanta importanza alla musica, quando incombono sul paese asiatico, come su tanti altri, problemi di natura politica, economica, ambientale, raziale, religiosa o altri apparentemente molto più rilevanti. Eppure, a mio giudizio il problema della musica non è meno importante degli altri, e non solo per lo Sri Lanka.
Ma rimaniamo, per il momento, nell’ambito di questa piccola nazione, che sembra di scarsa importanza nello scacchiere internazionale, ma che pure potrebbe costituire un punto di passaggio privilegiato per i rapporti tra l’Asia e il mondo occidentale.
Non sono un esperto di musica orientale. Soltanto una volta, da giovane, assistetti ad un concerto di musica indiana e sinceramente la trovai insopportabile. So che alcuni considerano la musica tradizionale dei popoli orientali superiore a quella occidentale. Uno di essi è il musicologo Marius Schneider, di cui ho letto soltanto qualche pagina. Mi risulta, anche per testimonianza di altri, che a suo giudizio la musica occidentale, a differenza di quella orientale, in un tempo abbastanza precoce, si sarebbe allontanata dalle tradizioni musicali primitive prendendo una falsa strada.
Non ho potuto verificare in quale periodo Schneider collochi questo “traviamento”. Personalmente penso anch’io che nell’ultimo secolo, o poco più, la musica occidentale, e non solo quella popolare, o meglio “commerciale”, ma anche quella “dotta”, abbia preso una strada errata o, se vogliamo, aberrante. Certamente però il pensiero di Schneider è un altro, e probabilmente ricorda da vicino gli analoghi giudizi antimoderni di Heidegger sulla decadenza della filosofia occidentale, che avrebbe preso avvio nientemeno che da Platone.
Su questo “antimodernismo” – in musica come in filosofia – non mi sento proprio di concordare, anche se, a mio giudizio, la linea più sana – e più fruttuosa per una auspicata rinascita musicale – della musica occidentale non si trova negli esiti estremi del romanticismo e nelle sperimentazioni successive, ma ha la sua radice nel canto gregoriano e si sviluppa gloriosamente nella musica tardo-medievale e rinascimentale per trovare un’espressione privilegiata nel periodo barocco. In questa prospettiva la musica romantica – che pure ha un valore altissimo – dovrebbe essere un po’ ridimensionata. Nella musica romantica stessa andrebbero rintracciate le correnti e gli autori che meglio hanno saputo mantenere e sviluppare le tradizioni più antiche.
Ma torniamo ora all’oriente, dove, a dire dei suoi appassionati cultori, vi sarebbe una musica tradizionale superiore e più “sana” della migliore musica occidentale. Non intendo mettere in discussione questo giudizio, soprattutto perché mi mancano le cognizioni per poterlo fare. Quello che posso dire, però, con certezza – grazie all’esperienza vissuta in loco per più di un anno – è che, almeno per quanto riguarda lo Sri Lanka, questa musica tradizionale orientale, se si eccettuano i riti religiosi buddisti, ha una scarsissima presenza nella vita sociale, mentre è assolutamente massiccia l’invasione di moduli musicali derivanti dalla peggiore produzione commerciale dell’occidente. Si potrebbe quasi affermare che questa presenza è ancora più invadente che nelle nazioni occidentali. Infatti in occidente vigono certe regole di civiltà che non ho trovato in Sri Lanka, dove – per fare un esempio – è quasi di norma viaggiare per lunghe ore negli autobus di linea allietati – si fa per dire – per tutto il tempo da un’assordante musica rock. La stessa musica spesso risuona fragorosamente nelle strade, e purtroppo non è raro che rompa la tranquilla serenità della vita campestre attraverso le potenti casse acustiche di dimore private trasformate in discoteche casalinghe. Così avviene abbastanza spesso che i momenti di riposo siano disturbati da ritmi ossesivi di strumenti a percussione diffusi a largo raggio dai congegni elettronici presenti nelle case di campagna. Non si avverte lo stesso disturbo quando dai templi buddisti risuonano, amplificate, le melopee liturgiche tradizionali. Anche se a volte il canto litanico si ripete per l’intera notte, ciò per lo più non impedisce il riposo. Tutt’altro è l’impatto dell’ossessiva musica commerciale e della relativa amplificazione elettronica.
La cosa più inquietante è che questo tipo di musica ha un posto rilevante nella stessa liturgia della Chiesa. Tutti sappiamo che ciò avviene anche in Italia, ma in Sri Lanka il fenomeno è molto più vistoso. Il popolo singalese, infatti, è molto più ingenuo del nostro e non ha alle spalle una tradizione musicale lontanamente paragonabile a quella italiana, cosicché è molto più esposto alla seduzione di una strumentazione elettronica che permette, con poca fatica, di arricchire il canto con i più stravaganti accompagnamenti da sala da ballo e di diffonderne lo strepito tramite potenti casse di risonanza.
Affermando che in Sri Lanka non vi è una tradizione musicale paragonabile a quella italiana, non intendo mettere in discussione quanto sostenuto dai cultori della musica orientale. Il senso della mia affermazione è che, se veramente esiste una tradizione musicale orientale di incomparabile valore – e non mi permetto di negarlo – essa però probabilmente rimane strettamente confinata all’ambito religioso induista e buddista, il quale avrà certamente la sua vasta estensione, ma non sembra, almeno in Sri Lanka, uscire dai recinti del sacro. Inoltre – e questo è un punto capitale per il mio discorso – nell’ambito propriamente cristiano questo tipo di musica non ha una sua rilevante presenza.
Il cristianesimo in Sri Lanka non è affatto recente. Risale, infatti, in gran parte alla conquista portoghese del secolo XVI – pur essendoci tradizioni più antiche – ed è perciò vero che nella liturgia attuale, se non vi sono visibili tracce delle tradizioni musicali induiste o buddiste, si trovano formule melodiche tradizionali ieratiche non meno espressive di quelle gregoriane – e inoltre, accanto ad esse vi sono sia canti propriamente gregoriani, anche se spesso vengono un po’ storpiati, sia adattamenti di formule liturgiche latine all’inglese o al singalese. E tuttavia non vi è tutta la tradizione musicale che, in occidente, dopo avere in tanti modi arricchito la liturgia della Chiesa, si è poi riversata in pressoché tutti gli ambiti del sentimento umano e del costume pubblico e privato.
E del resto in Sri Lanka, se ci sono insegnamenti di musica nei normali corsi di studio, non esistono conservatori come in Italia – dove, finché qualche finanziaria non li faccia scomparire, essi abbondano – né storici teatri, arene musicali o sale da concerto. In tutta l’isola, grande due volte la Sicilia, vi è un solo organo a canne. E quanti ve ne sono in Sicilia?
Il risultato è che, nella liturgia e nella cultura musicale degli ambienti cristiani orientali, vige l’imitazione di quanto offre attualmente l’occidente.
Come dicevo all’inizio, il problema della musica non riguarda soltanto lo Sri Lanka, ma anche i nostri paesi occidentali, e l’Italia al primo posto. Infatti tutti sappiamo quale sia la musica che, escluse alcune notevoli porzioni della popolazione, religiosa e laica, impera tra il nostro pubblico. E questa situazione già da gran tempo ha finito per condizionare pesantemente la stessa liturgia della Chiesa. Mi risulta che anche nei seminari la formazione musicale sia generalmente scadente, e sia considerata un po’ come “la Cenerentola degli studi sacri”.
Ho avuto modo di confrontare, tra i vari gruppi che abbiamo ospitato nel nostro monastero in Italia, il canto sacro di sacerdoti e seminaristi croati, di suore tedesche e francesi e di giovani sacerdoti italiani. Purtroppo devo dire che, tra tutti, i connazionali di Palestrina, di Pergolesi e di Perosi erano i meno seriamente preparati. So bene che le associazioni e le corali sacre, anche di alto livello, abbondano nel nostro paese. Sembra però che esse non riescano, nell’insieme, a determinare il clima generale della musica sacra nelle diocesi italiane.
Date queste premesse, e dato che nello Sri Lanka l’esempio dell’Italia, insieme a quello dell’America, è prevalente, non ci si può stupire se la musica liturgica locale, nonostante le belle formule tradizionali e i gradevoli canti popolari, sia in una situazione preoccupante.
Perché ho parlato così a lungo della musica? Perché a mio giudizio essa non è un ornamento opzionale della vita, ma è uno degli elementi che più potentemente condizionano il nostro modo di sentire in tutti gli ambiti dell’esistenza, a livello conscio e inconscio – e in primis il sentimento religioso. Quanti hanno abbracciato la fede per la suggestione della musica, e non solo della musica sacra? Per fare un solo esempio, la pianista russa Marija Judina incontrò Dio sulla tastiera del suo pianoforte – e perfino Stalin pianse di commozione ascoltando la sua esecuzione di Mozart.
Per questo motivo a mio giudizio gli educatori, ecclesiastici e laici, hanno commesso uno dei più gravi errori della storia della civiltà lasciando, negli ultimi decenni, la gioventù in balia di una musica sempre più decadente, nell’illusione che bastasse, per l’educazione dei giovani, una buona formazione catechistica o scolastica puramente teorica. Se pensiamo in quanti modi la musica penetra oggi nella vita dei giovani attraverso i più sofisticati strumenti messi a disposizione dalla tecnica moderna, e se ci chiediamo quale sia il genere e la qualità massicciamente prevalenti in questa capillare diffusione, forse qualche inquietudine dovremmo sentirla.
La gioventù dello Sri Lanka ha, per lo più, ancora forti sentimenti religiosi e morali, ma è anche ingenua e ignara. Tanto più facilmente essa rischia di essere fagocitata dalle mode peggiori che si diffondono attraverso i moderni strumenti di comunicazione, senza che possa fare un confronto tra i messaggi da essi trasmessi e una ricchezza culturale di tutt’altro spessore, che nel suo proprio ambiente di vita è totalmente assente.

2. Il racconto di un’esperienza nella missione benedettina

Attraverso i secoli le istituzioni religiose sono sempre state custodi e promotrici di una cultura superiore, prima di quelle laiche. Non pretendo ora di dare di ciò una spiegazione esauriente. Si può però almeno accennare che il fatto di considerare sacre e inviolabili certe realtà sovrumane, alle quali l’uomo deve accostarsi con venerazione, cercando di adeguarsi ad esse con lo sforzo ascetico necessario a rendersene in qualche modo partecipe, conferisce alla relativa ricerca spirituale e morale una serietà e un’elevatezza con cui le aspirazioni che hanno motivazioni puramente terrene non possono stare a confronto.
Rientra in questa prospettiva il ruolo svolto dalle istituzioni monastiche per la diffusione e la conservazione della cultura. In ambito cristiano possiamo ricordare, tra i molti altri, l’esempio della missione dei monaci romani inviati in Inghilterra da San Gregorio Magno nel 597 sotto la guida del Priore Agostino, poi divenuto primo Arcivescovo di Canterbury. Le conseguenze, anche sul piano della cultura, di questa fondazione monastica furono incalcolabili.
I monaci romani, infatti, portarono in Inghilterra, insieme alla fede cristiana, anche numerosi elementi di civiltà inscindibilmente legati alla vita cristiana e monastica. Tra essi il culto della Sacra Scrittura, e quindi la necessità di scrivere, leggere e comprendere il testo sacro, e perciò lo studio della lingua latina, e poi la creazione di una scrittura per la lingua locale anglosassone, la traduzione in detta lingua della Bibbia e delle preghiere liturgiche della Chiesa – impegno dal quale doveva nascere la nuova cultura cristiana anglosassone, che avrebbe anche raccolto l’eredità della precedente cultura pagana.
Ma con la liturgia della Chiesa, e con la vita monastica che ne era in modo particolare custode, entrarono in Inghilterra il canto sacro romano e l’architettura romano-cristiana, mentre dalla Penisola venivano importati numerosi volumi per arricchire le biblioteche dei cenobi di nuova fondazione.
Dato l’eccezionale successo di questa missione, così singolarmente legata alla diffusione del monachesimo nell’Isola, non stupisce che a meno di due secoli dall’arrivo dei missionari romani l’Inghilterra donasse alla cristianità uno di quei santi che, per la loro sapienza, hanno meritato il titolo di “Dottori della Chiesa”: San Beda il Venerabile.
Questa affascinante figura di monaco profondamente erudito e profondamente umile, oltre ai suoi commenti alla Sacra Scrittura e ai suoi scritti di agiografia, e anche di astronomia, è noto soprattutto per essere stato, con la sua opera “Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum”, il fondatore della storiografia – e in un certo senso anche della letteratura – inglese.
Se ora pensiamo all’importanza che ha assunto, se non erro come nessun’altra, la letteratura inglese a livello mondiale, non si può negare che il seme piantato da Agostino e sviluppato dai suoi successori, e specialmente dal Venerabile Beda, si può ben paragonare al granello di senapa del Vangelo.
Certamente non pretendo di paragonare la nostra piccola fondazione in Sri Lanka alla missione inviata in Inghilterra da San Gregorio Magno. Penso però che sia nostro dovere cercare, per quanto è possibile, di imitare le tradizioni lasciateci dai nostri padri. Ora uno dei loro esempi più vistosi è l’impegno da loro profuso non solo nella predicazione del Vangelo, ma anche nella cura di tutte quelle opere di civiltà e di cultura che, coltivando lo sviluppo fisico e spirituale dell’uomo, nello stesso tempo favoriscono il radicarsi del sentimento religioso e cristiano nella vita di tutti i giorni.
Dal desiderio di seguire questa strada e dall’amore per la musica, accompagnato dal dispiacere di vederla così trascurata e bistrattata da una popolazione tanto semplice e spontanea e tanto dotata, è nata una piccola cosa, che potrebbe però essere anch’essa, fatte le debite proporzioni, un po’ come l’evangelico granello di senapa.
L’idea era sorta un po’ alla volta, spontaneamente, meditando il quinto dei misteri gaudiosi del rosario. Poi c’erano state quelle sere e quelle mattine in cui, un po’ giù di morale per qualche disappunto, mi mettevo alla tastiera e, quasi per scherzo, provavo a improvvisare un preludio, o un coro di pellegrini o di devoti. Stranamente da questi tentativi poco convinti incominciavano a venir fuori melodie interessanti. Possibile? No! Sai che fatica mettere a punto un’opera, anche se breve? Secondo il mio solito modo di procedere: prima le melodie, poi le armonie e la copiatura in “bella” – sempre rigorosamente a mano e a matita – infine le parole. Ammesso di riuscire a inventare delle melodie accettabili, chi se la sente di affrontare un’impresa simile?
Fatto sta però che le melodie – di varia ispirazione classico-romantica e soprattutto belliniana – a poco a poco venivano fuori, e mi piacevano veramente! Allora che fare? Quando ho visto che ormai la maggior parte delle idee di base si era formata, ho capito di aver raggiunto il “punto di non ritorno”. Dunque coraggio! Avanti!
Ma per chi non è professionista, ha lasciato a metà gli studi regolari ed è andato poi avanti come autodidatta, la faccenda è seria! Mettersi lì a cercare l’armonia giusta, e poi a controllare con trepidazione se non è scappata per caso qualche “quinta” o qualche “ottava” irregolare, e infine scrivere tutto in bella scrittura con il povero aiuto di un righello… E’ proprio una bella seccatura!
Ma come Dio vuole, a tutto c’è una fine! Così anche questo “lavoraccio” ha avuto il suo termine. Però non bastava: c’erano da mettere le parole! Un’idea di fondo non è certo sufficiente: bisognava trovare l’espressione linguistica adeguata e far sì che gli accenti delle parole coincidessero con quelli della melodia e che il testo letterario avesse una musicalità adeguata al canto con cui si intendeva esprimerlo. Altra bella strada in salita! Generalmente all’inizio sembra un’impresa disperata. Poi un po’ per volta si incomincia a ingranare, e quando si arriva alla fine ci si stupisce di essere riusciti, magari in qualche punto anche con un certo afflato poetico espressivo!
C’era ora il lavoro materiale di copiare le parole nello spartito. Ma prima di far questo bisognava fare una fotocopia dello spartito stesso senza le parole italiane. Infatti il lavoro era destinato allo Sri Lanka, e bisognava in qualche modo dall’originale italiano ricavare un testo in singalese. Bella impresa!
Fatte le fotocopie e copiato il testo letterario – il cosiddetto “libretto” – sullo spartito originale, ecco presentarsi il problema di come realizzare un testo ritmico in singalese. Personalmente sono ancora all’ “ABC”. Immaginiamoci quanto possa pensare di fare una cosa del genere! Intanto uno dei nostri novizi incomincia ad appassionarsi al lavoro. Però ci vuole prima il testo in inglese! E va bene! Facciamo anche questo! Così abbiamo realizzato anche una traduzione inglese, naturalmente non ritmica ma soltanto letterale.
Ecco poi nascere l’idea di chiedere a una parrocchiana, che ha una buona voce e una certa passione per il canto in chiesa, se se la sente di provare a scrivere un testo singalese con gli accenti ritmici adatti alla musica. La risposta è positiva, e subito il novizio propone di registrare le melodie per facilitare l’esecuzione del lavoro.
A tutt’oggi la composizione del libretto singalese sta andando avanti lentamente, anche se è a buon punto. Nel frattempo si fa avanti un altro dei nostri giovani, di lingua tamil: perché non si fa la traduzione anche in tamil? “Falla, falla! Ma poi bisogna adattarla agli accenti della melodia!” Bene: anche questo si farà!
Si prevede poi un lavoro non da poco per insegnare ai locali il canto corale a quattro voci, che in Sri Lanka praticamente non esiste. Se si riuscirà, sarà dunque una notevole opera di civilizzazione. Ma ciò che mi preme di più è che, per mezzo di belle melodie, attraverso le quali si esprime un testo letterario portatore di profondi sentimenti umani e cristiani, si possa risvegliare in questo popolo l’amore per una musica diversa da quella che essi finora hanno conosciuto e il desiderio di scoprirla e di coltivarla sempre più. Chissà che non si rivelino talenti vocali e strumentali nascosti, o addirittura che si manifesti qualche ingegno locale capace di creare una musica nuova? E che tutto questo non serva a dare un nuovo indirizzo spirituale alla gioventù e una nuova ispirazione alla liturgia singalese?

D. Massimo Lapponi

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