Abominatio desolationis

sacra rappresentazione

di Don Massimo Lapponi


Riportiamo qui di seguito, in traduzione italiana, l’informazione su Publio Petronio, governatore di Siria dal 39 al 42 d.C., tratta dall’Enciclopedia Giudaica:

[Publio Petrinio], governatore della Siria (39-42); morì probabilmente durante il regno di Claudio. Durante il suo mandato Petronio ebbe frequenti occasioni di entrare in contatto con gli ebrei della Giudea e di conferire loro benefici. Ciò avvenne soprattutto quando il folle imperatore Caligola si fece adorare come un dio in tutto l’impero romano, così che il pericolo che aveva minacciato gli ebrei di Alessandria divenne ancora maggiore in Palestina. Irritato dalla notizia che gli ebrei avevano demolito l’altare imperiale costruito dai greci a Jabneh, Caligola ordinò che la sua statua fosse collocata a Gerusalemme nel Tempio stesso; e poiché era prevedibile che i Giudei resistessero ostinatamente, ordinò a Petronio di entrare in Giudea con la metà del suo esercito, cioè con due legioni.

Il governatore fu abbastanza scaltro da non irritare al massimo gli ebrei, e quindi praticò una politica di ritardo. Sebbene avesse fatto fare la statua a Sidone, non avanzò verso Gerusalemme, ma rimase a Tolemaide durante l’inverno del 39, discutendo con i capi dei Giudei, che naturalmente non erano disposti a cedere. Moltitudini di ebrei – vecchi, donne e bambini – si gettarono ai suoi piedi, dichiarando che sarebbero morti piuttosto che sottomettersi alla profanazione del loro santuario; ed ebbe lo stesso spettacolo quando soggiornò a Tiberiade nell’autunno dell’anno 40. Là le suppliche del popolo furono sostenute da Aristobulo, fratello del re Agrippa, e dal loro parente Elchia, così che Petronio, mosso dalla profonda pietà per il popolo ebraico, ricondusse le sue truppe ad Antiochia, e scrisse all’imperatore, supplicandolo di annullare il suo ordine. Frattanto le cose a Roma avevano preso una piega favorevole, per l’intervento di Agrippa, e l’imperatore ordinò che fosse scritta una lettera a Petronio che proibisse qualsiasi alterazione nel Tempio di Gerusalemme.

L’imperatore, tuttavia, non fu sincero in questa faccenda, e forse dedusse che Petronio stesse solo cercando una scusa quando disse che la statua di Sidone non era pronta. Ordinò quindi che fosse fatta un’altra effigie a Roma, che intendeva portare personalmente a Gerusalemme. Quando giunse all’imperatore la lettera di Petronio con la supplica di revocare l’ordine, quest’ultimo si arrabbiò tanto per la disobbedienza del suo governatore, che fece scrivere una lettera chiedendo che Petronio si togliesse la vita in punizione. Fortunatamente Caligola fu assassinato poco dopo; e la notizia della sua morte giunse a Petronio ventisette giorni prima della lettera imperiale che ordinava il suicidio del governatore (Filone, “Legatio ad Caium”, §§ 30-34; Giuseppe Flavio, “Ant”. xviii. 8, §§ 2-9 ; idem, “B. J.” ii. 10, §§ 1-5).

Nella sacra rappresentazione si sono introdotte alcune variazioni rispetto ai dati storici. Vi si suppone una non documentata volontà di compromesso da parte delle autorità religiose di Gerusalemme e la notizia della morte dell’imperatore viene anticipata al giorno stesso della decisione del governatore Publio Petronio di non ottemperare agli ordini ricevuti.

PERSONAGGI

PP – Publio Petronio, governatore di Siria – basso

Sac – Un sacerdote del tempio di Gerusalemme – basso

S – Un servitore – tenore

C – Folle dei Giudei

            L’azione si svolge a Tiberiade nell’autunno dell’anno 40 d.C. La scena rappresenta un colonnato romano che dà su una grande spianata sullo sfondo della scena. È sera. Publio Petronio passeggia solitario e meditabondo. Poco dopo gli si accosta un servitore.

S:

Giunto già da Solima

            un sacro pastor

            l’eccellente Publio

            vorrebbe incontrar.

PP:

            Egli è il benvenuto.

            Deh, fatelo entrar.

            (Entra il sacerdote e si accosta a Publio Petronio)

Sac:

            I miei devoti omaggi,

            o nobile signore.

PP:

            A te, sacro pastor,

            rispetto e onor.

Sac:

            Tu sai qual cruccio ognor

            angustia il nostro cuore:

            la statua che nel tempio

            andar dovrà.

PP:

            A Tolemaide

            un messagger

            di questo cruccio già mi parlò.

            Provo nel cuore una grave mestizia

            per l’ingiunzione del nostro sovrano

            di collocar nel recinto del tempio

            la propria immagine da venerar.

A Tolemaide, lo spirto smarrito,

udii per l’alto decreto imperial

del vostro popolo folle imploranti

gemere e piangere per tutto il dì.

Ed un vegliardo mi disse: Il profeta

ch’io già conobbi ai miei giorni annunciò

l’empio abominio riposto nel tempio,

ch’ei, quale vento disceso dal ciel,

con il suo alito distruggerà.

L’aura profetica di quel vegliardo

gettò una nube nel mio cuore inquieto.

Dovrei ascoltare del popolo il grido

e di quell’uomo il richiamo fatal?

Sac:

            O eccellente Publio,

            nel cuor non ti turbar.

            Non dèi dar tu credito

            a questo vaneggiar.

PP:

            Son dunque preda d’un rio vaneggiar?

            Il mio cuore trema al pensier

            di quel dì, quando vidi il popolo

            insiem s’assiepar.

            A una sola voce levò un gemito

al suo Dio, e prostrato al suol

            per il suo onor s’offrì a morir.

            Scuote ancor la voce di quel santo

            e pio vegliardo le più arcane fibre

            nel profondo del cuor.

Sac:

            Di quesro popolo

siam noi le guide. Ogni tumulto

            cercherem d’acquietar.

            Quanto al vegliardo non v’è a temer.

            Ei è della setta del Nazaren.

            Un vil patibolo, fatal sigillo,

            da gran tempo pose fine

            al suo delirar. Qual defunto mai

            potrà discender dal ciel?

PP:

            Possa ciò che dici

            dare pace al mio cuor.

            Ma cerchiamo insieme

            ciò che possa giovar.

            Io già scrissi a Cesare

            di ritardare il tempo.

            Finsi che l’immagine

            la si attendesse ancor.

            Ma prescrisse il despota

            che fosse fusa in Roma,

            sì che il suo disposto

            non tardasse un sol dì.

            All’urna s’io recalcitro

            potrò giammai sfuggir?

Sac:

            Ma infin da questa storia

            potremo indenni uscir.

PP:

            È il mio più gran desir.

Sac:

            Il capo del sinedrio si raccomanda a te

            perché nel nostro popolo sia pace e sicurtà.

PP:

            Il fato disponga così.

            Non sai qual ansietà m’opprime il cuor

            per la tua gente, su cui vedo gravar

            un’ombra oscura e fatal.

            L’alma mi sgomentò

            del popolo tuo l’immensa fede,

ed ogni rio timor senza esitar

vorrei bandir da questo suol,

se sol ne avessi il poter.

Sac:

            L’almo sinedrio mi dette quest’ordine:

            con te in segreto un accordo trovar.

            Dir che l’immagine vuole indicar

            non il celeste, ma il regio poter.

            Simbolo è dessa dell’alma

            imperial potestà.

            Empio e sacrilego idolo

            giammai sarà,

            e nostra cura sarà di posarlo

            nell’atrio del tempio,

discosto e lontan dal recinto sacral.

            Il nostro popolo docile persuaderem

            che il simulacro non viola la sacra maestà.

            Con opportune, suadenti parole,

trarremo a pensieri di pace e timor

questo gregge fedel.

In un frangente di mali si gravido,

urge le gravi questioni affrontar

con avveduta e prudente virtù.

PP:

            Possa l’impegno tuo calmar nei cuor

            gli ardenti affetti che accendono il timor

            d’un rio destino e mortal.

            Vorrei poter stornar ogni terror,

            che i cuori angustia, d’un’empia offesa al ciel,

            o d’un brutal crudo infierir

            del fiero acciar a questo popolo in sen.

Sac:

            Dormi sereno, mio nobil signor.

PP:

            Vada a buon fine la tua virtù,

            e a tutti noi sia benigno il destin.

            (Ambedue si ritirano. Intanto è scesa la notte e, nella vasta spianata dietro il colonnato, nell’oscurità si raduna la folla degli ebrei)

C:

            Prostrati al suol, al cospetto dell’Altissimo,

            a lui leviam con angoscia il nostro gemito.

            Mira, o Signore, a qual vile grado

            ci umiliò l’onta della nostra schiavitù.

            L’augusto tempio, fulgido asilo della tua gloria,

            un abietto idol profanerà.

Oh!

Messo imperial, giunga a te la nostra supplica!

Il Dio del ciel su ogni scettro regge e domina.

Uomo mortale, non provocare

su noi e sul mondo l’ira del ciel.

Al divino, sacro asilo non t’accostar.

La nostra voce, deh, salga fino a te!

Di noi fiaccati, miseri e servi,

è solo il tempio gioia ed onor.

Pur di salvarlo dall’empia imago

siam questa vita pronti a donar.

Il crudo acciar, deh, configgi in queste viscere,

ma il sacro asil non macchiar col turpe idolo.

Guarda, o Signore, l’anima afflitta

di questo popol che implora pietà.

Non mirar le nostre empie infedeltà,

ma ricorda ognor le tue promesse

verso un popol che già un dì

tra mille e mille tu scegliesti per te.

Contriti, il cuor umiliato quasi cenere,

l’alma fidente a te leviam.

Perdona a noi, Signore,

le colpe dei nostri padri,

e, per la tua clemenza,

a noi che abbiam violato

le sante tue leggi,

deh, mostra la tua benigna,

divina pietà.

Giusto tu sei in ogni tua opera,

il mondo reggi qual equo sovrano,

scruti le incerte intenzioni dei cuor

con indulgente paterna bontà.

Da noi distogli il tuo giusto furor,

per la tua immensa, sublime pietà.

Un opprimente giogo

già grava sul nostro capo,

fio delle nostre colpe.

Or l’abominio immondo

del tempio tuo augusto

l’infamia sarà.

O Signore, di quest’onta

non permetter l’empietà.

Prendi in cambio questa vita,

che qual dono d’un sol cor

senza indugio noi t’offriam.

Nobil messo forestiero

d’un sovrano rio poter,

deh, sopprimi noi tuoi servi,

ma del tempio l’alto onor

non osar tu profanar.

Ascolta il nostro grido:

deh, storna dal sacro tempio

l’onta della vergogna,

l’orrendo simulacro

che offende l’Eterno.

Te libera e noi tuoi servi

dall’ira fatal.

A questo umile, misero popolo

solo rimane, qual almo tesoro,

il tempio fulgido del Dio del ciel,

gioia e delizïa del nostro cuor.

Deh, non ci orbar di quest’ultimo asil,

se nel tuo petto v’è ancora pietà.

Perdona a noi, Signore,

le colpe dei nostri padri,

e, per la tua clemenza,

a noi che abbiam violato

le sante tue leggi,

deh, mostra la tua benigna,

divina pietà.

Mira il lutto che ci affligge.

O Signor, di noi pietà!

Possa il nostro mesto pianto

penetrar del forestier in fondo al cuor

e risvegliar, dono del ciel,

un raggio di bontà.

Deh, mira il nostro pianto, o Dio del ciel!

A te sospira afflitto il nostro cuor.

In te, o Signor, soltanto confidiam.

Deh, giunga il nostro grido di dolor

nel ciel, fino a te!

Mira il lutto che ci affligge.

O Signor, di noi pietà!

Possa il nostro mesto pianto

penetrar del forestier in fondo al cuor

e risvegliar, dono del ciel,

un raggio di bontà.

Prostrati al suol, al cospetto dell’Altissimo,

            a lui leviam con angoscia il nostro gemito.

            Mira, o Signore, a qual vile grado

            ci umiliò l’onta della nostra schiavitù.

            L’augusto tempio, fulgido asilo della tua gloria,

            un abietto idol profanerà.

Oh!

Messo imperial, giunga a te la nostra supplica!

Il Dio del ciel su ogni scettro regge e domina.

Uomo mortale, non provocare

su noi e sul mondo l’ira del ciel.

Al divino, sacro asilo non t’accostar.

La nostra voce, deh, salga fino a te!

Di noi fiaccati, miseri e servi,

è solo il tempio gioia ed onor.

Pur di salvarlo dall’empia imago

siam questa vita pronti a donar.

Il crudo acciar, deh, configgi in queste viscere,

ma il sacro asil non macchiar col turpe idolo.

Guarda, o Signore, l’anima afflitta

di questo popol che implora pietà.

Non mirar le nostre empie infedeltà,

ma ricorda ognor le tue promesse

verso un popol che già un dì

tra mille e mille tu scegliesti per te.

Contriti, il cuor umiliato quasi cenere,

l’alma fidente a te leviam.

(È spuntato il giorno. Entra Publio Petronio, pensieroso e preoccupato. Poco dopo entra il servitore)

S:

            Giunge qui il ministro

            del sacro tempio di Gerusalem.

PP:

            Sia il benvenuto, Deh, fatelo entrar.

            (Entra i sacerdote e rimane muto, con gli occhi fissi a terra)

PP:

            Che questo nuovo giorno

porti a noi letizia e pace del cuor.

Passai la notte insonne,

oppresso da vivo stupor.

Al popol che la notte oscura

con strazianti accenti fece risuonar,

deh, con saggi consigli t’affretta a parlar.

(Il sacerdote si inginocchia di fronte a Publio Petronio)

Sac:

            O nobile signor, m’ascolta:

            prostrato ai tuoi piedi,

l’immensa mia colpa

io dèo confessar.

Anch’io passai la notte insonne,

il cuore turbato d’angoscia,

sconvolto dall’udir le grida devote,

struggenti del popol, fedel del cielo al Sovran,

che questo mio cuor indegno tradì.

Illuso d’accordar la fede

con l’empia, superba,

sfrontata insolenza

del mondo infedel,

credea poter a vili patti

discendere indenne senz’onta.

Ma questo cuor codardo or geme

e implora che l’idol mia spoglia mortal pria calchi crudel

che l’atrio fatal ardisca varcar.

(Publio Petronio solleva il sacerdote da terra)

PP:

            Risveglia il tuo parlar

            i più sublimi, ardrenti affetti del cuor.

            Non dèi giacer prostrato al suolo,

            o degno pastor.

            Il grido di dolor che assiduo risuonò

            nell’aere notturno

            sconvolse il mio vivo sentir.

            Nel più profondo del mio spirto

            l’onor romano or si ravviva.

            Se pur per norma dell’imper

            por fine di mia man ai giorni miei dovrò,

senza tema, qual fiero Catone,

l’iniqua ingiunzione giammai compirò.

(Il sacerdote abbraccia Publio Petronio)

Sac:

            Non vo’ seguir la sacra norma antica

            di riguardar qual empio il forestier,

            ma, qual fratel che offristi a noi la vita,

            al grato amor t’affiderò

            del popol mio, che mai t’oblierà.

            (Entra il servitore)

S:

            Da Roma un messo giunse, o signor,

            ed un felice annunzio riportò.

            Un fiero acciar l’alma città

            dall’empio e rio tiranno liberò.

            (Il sacerdote sussulta, alza gli occhi al cielo con devota gratitudine e si avvia a parlare al popolo)

Sac:

            Pii fedeli, l’empia imago

            nella città santa mai verrà.

            Ciò decise il nobil duce,

            (Dicendo queste parole trae a sé Publio Petronio e lo indica alla folla)

            e con cruda morte il rio tiranno

            Iddio punì.

C:

            Leviam senza fin le lodi al ciel,

            ché ci ravvolge nel suo eterno amore.

            Devoti ognor lodiamolo:

            eterno è il suo amor!

            Creò la terra, i cieli, i mari, i monti

con sapienza.

Eterno è il suo amor!

Leviamo senza fin le lodi al ciel,

            ché ci ravvolge nel suo eterno amore.

            Devoti ognor lodiamolo:

            eterno è il suo amor!

            Ci liberò dagli empi in ogni tempo

            col suo braccio.

            O dolce Signore,

            eterno è il tuo amor!

F I N E